#ed immancabilmente ha sempre ragione
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com’è com’è che non giochi più con me
#è la sovrapposizione delle voci quando parte antonio#antonio con quella sua voce che è contemporaneamente quella di Un Papà e Una Bambina#(e anche quella di una mamma ma questa è una roba mia)#incredibile come tumblr user gaysessuale dirà: non sei pronta all'entrata di antonio#ed immancabilmente ha sempre ragione#infatti tàc subito clippina non richiesta#info fondamentale: canzone di Dente ft fulminacci colapesce dimartino ditonellapiaga vv giorgio poi#avengers endgame della scena indie italiana#dimartino#ditonellapiaga#dente#musica italiana#roba mia#jukebox tag
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[...] Tuttavia questa truffa non è affatto nata con Internet, come molti pensano. Girava già su carta negli anni Novanta, chiedendo risposta tramite l’allora modernissimo fax, come segnala Silvano, che mi ha mandato questa copia di una lettera del 1998:Ma Atlas Obscura segnala che il New York Times del 1898 (sì, milleottocentonovantotto) parlava già della faccenda dicendo che era una truffa “comune” e “vecchia” che stava riemergendo. Ovviamente non c’era Internet nel 1898, per cui i truffatori comunicavano per posta cartacea.
Scrive il NYT:
“L’autore della lettera è sempre in carcere a causa di qualche reato politico. Ha sempre una grossa somma di denaro nascosta, ed è immancabilmente ansioso che venga recuperata e usata affinché qualche uomo onesto possa prendersi cura della figlia giovane e indifesa. È al corrente della prudenza e del buon carattere del destinatario della lettera tramite un amico comune, che non nomina per cautela, e gli chiede aiuto in un momento di grande difficoltà.”
In cambio, spiega il giornale, il mittente “è disposto a dare un terzo del tesoro nascosto all’uomo che lo recupererà”. Ma prima ha bisogno di ricevere una piccola somma di denaro.
Gli ingredienti di oltre centoventi anni fa, insomma, sono gli stessi di oggi. Ma si può andare ancora più indietro nel tempo, ai primi dell’Ottocento. Eugène François Vidocq (1775-1857), uno dei padri della criminologia, racconta nelle sue memorie di quando fu condannato a otto anni di carcere per “falso in conti pubblici ed autentici”, nel 1797. In prigione vide che i carcerati scrivevano le cosiddette “lettere di Gerusalemme”, con la complicità dei carcerieri, e ne descrisse il contenuto:
Signore, Indubbiamente lei sarà stupito nel ricevere una lettera da una persona che non conosce, che sta per chiederle un favore; ma dalla triste condizione nella quale mi trovo, sono perduto se una persona d’onore non mi presterà soccorso: questa è la ragione per la quale mi rivolgo a lei, di cui ho sentito così tante cose che non posso esitare un istante nel confidare tutti i miei affari alla sua cortesia....
La lettera standard prosegue spiegando che lo scrivente diceva sempre di essere il cameriere personale di un noto marchese che aveva dovuto abbandonare il proprio tesoro in un luogo ben occultato per evitare che finisse nelle mani dei malfattori. Il luogo era nelle vicinanze del destinatario della lettera. L‘autore della lettera spiegava che in cambio di un piccola somma si sarebbe potuto liberare dal carcere e avrebbe potuto così condurre il destinatario al tesoro per dividerselo. [...]
Vidocq spiega tutto: di cento lettere di questo tipo, venti ricevevano sempre risposta. I carcerati si procuravano gli indirizzi delle persone ricche della provincia dai nuovi prigionieri. I ricchi abboccavano a questa storia improbabile, mandando a volte fino a 1500 franchi dell’epoca. E non c’era verso di far capire alle vittime che erano state raggirate: Vidocq racconta del “mercante di stoffe della Rue des Prouvaires, che fu colto a scavare sotto un arco del Pont Neuf [a Parigi], dove si aspettava di trovare i diamanti della duchessa di Bouillon”.
I secoli passano, le tecnologie cambiano, ma le debolezze umane sono sempre le stesse.
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«Mi chiamo Alberto Paolini, ho ottantotto anni. Ne ho passati quarantadue nel manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma. Sono entrato che avevo quindici anni e ho rivisto la città nell’anno dei mondiali, il 1990. Ho subito per tre volte l’elettrochoc perché avevano scambiato i miei silenzi per una malattia.
Ma io non parlavo perché stavo male.
Cominciamo dall’inizio, come in tutte le storie che si rispettino. Vivevo con la mia famiglia a Via Piave 15, nel quartiere Pinciano di Roma. Papà faceva il portiere e per arrotondare riparava le scarpe del vicinato. Mia madre lavorava a mezzo servizio. Era una donna dura, severa. Comandava tutto lei, una mamma “padrona”. Era sempre nervosa, urlava. A mia sorella voleva bene, a me no. Mi brontolava sempre, mi picchiava. A casa nostra nessuno dei parenti si avvicinava più, la temevano.
Papà è morto quando io avevo cinque anni. Stava bene. Una sera si è portato le mani al cuore e ha cominciato a rantolare. Mia sorella ed io ci siamo tanto spaventati. Mamma ha detto poi che era stata una “sincope” a portarlo via da noi. Da quel momento tutto è precipitato. Mia madre non ce la faceva più a sostenerci, abbiamo dovuto lasciare la casa e ci ha messo in due collegi differenti, lontani. Poi, qualche anno dopo, anche lei è morta e ci siamo trovati completamente soli al mondo.
Nel mio collegio le suore erano cattive, non ci trattavano bene, spesso ci picchiavano. Insegnavano a stare zitti e obbedire senza discutere. In collegio era obbligatorio il silenzio, se parlavi eri punito. Tutti sembravano volere solo una cosa, quando ero bambino: che non parlassi. E io obbedivo, non parlavo.
Le suore non erano caritatevoli, stava cominciando la guerra, tutti avevano fame, tutti avevano paura. A 12 anni vengo mandato in un collegio di salesiani. Anche loro erano duri, severi. Anche loro picchiavano per un nonnulla. Io che, va bene, ero silenzioso e timido, subivo tante cattiverie dagli altri ragazzi.
Si faceva l’avviamento professionale e io stavo studiando in un laboratorio di sartoria. Ma quelli più grandi mi prendevano di mira. Io ero piccolo, anche fisicamente, e poi non parlavo, o parlavo poco. Mi facevano scherzi di tutti i tipi. Al laboratorio c’erano, di norma, un capo e un maestro. Il capo però era tornato al suo paese e un giorno il maestro si assentò. Al ritorno trovò una gran confusione e volle sapere di chi era la colpa. Tutti dissero che ero stato io. Ma non era vero. Un’altra volta mi spinsero fuori dalla classe e mi lasciarono in corridoio. Quando arrivò il maestro mi punì. Io non ci volevo più entrare, in quel laboratorio. Cercavo di richiamare l’attenzione del direttore che era più buono, ma non ci riuscii.
A un certo punto vennero due benefattori, due persone ricche che avevano un locale, forse un caffè, in Piazza di Spagna. Ci andava il bel mondo romano e, visto che eravamo alla fine della guerra, anche gli ufficiali americani. La signora, credo fosse svizzera, ho saputo più avanti che aveva fatto un voto. Suo figlio, durante la guerra, si era imboscato e i nazisti lo cercavano per fucilarlo. Lei si era rivolta alla Madonna garantendo che se si fosse salvato, lei avrebbe adottato un bambino in un collegio. Quel bambino fui io. Ma non venni adottato. Stetti a casa loro per un po’ e poi loro mi seguirono nel tempo. Ma da lontano. Perché a un certo punto anche loro pensarono che stessi male. Ero poco esuberante, per essere un bambino. E parlavo poco. Ma che volevano da me? Era quello che tutti, da mia madre al collegio delle suore fino ai salesiani, mi avevano imposto di fare.
D’accordo con i salesiani mi portarono alla clinica neuropsichiatrica dell’Università. C’era un giovane professore di guardia che si chiamava Giovanni Bollea. Lui disse che spesso i bambini strappati dalla famiglia o abbandonati che finiscono in collegio, hanno queste reazioni. E che dovevo solo stare sereno, stare fuori, conoscere la città e la vita. Per un po’ fu così. Ma io ero rotto dentro e le parole non mi uscivano facilmente.
Così i benefattori e i salesiani decisero di farmi ricoverare alla clinica dell’Università. Lì mi facevano tante domande, scrivevano dei moduli, mi fecero la puntura lombare che era molto dolorosa. Fui sottoposto a vari test psicologici, tra i quali quello delle macchie di Rorschach. Il dottor Finzi disse che ero un caso interessante e mi tennero lì cinque mesi.
Poi questo tempo finì e dovevo uscire. I medici dicevano che non avevo patologie, ero solamente stato troppo vessato da un’educazione repressiva.
Ma i benefattori non volevano o non potevano accogliermi e il collegio si rifiutò di riprendermi. Avevo una zia, lo scoprii allora, ma anche lei non mi volle, perché i suoi due figli erano contrari.
Non sapevano dove mettermi. Era il dopoguerra, c’era tanta fame. E allora decisero tutti insieme di ricoverarmi al Santa Maria della Pietà.
Lì mi trovai nel reparto dei bambini, anche se avrei dovuto stare con i grandi perché il limite era quattordici anni. Io ero piccolo, mingherlino e allora mi tennero con i ragazzi. Ho fatto amicizia con un bambino che si chiamava Franco. Lui era il contrario di me, faceva scherzi, si burlava di tutti e in particolare di Italia, un’infermiera che aveva paura dei piccoli insetti con i quali lui, immancabilmente, le riempiva le tasche. D’altra parte in quei tempi erano i ragni o le lucertole i nostri compagni di giochi preferiti. Non avevamo altro. Franco stava bene di testa, aveva però delle crisi epilettiche e per quello lo avevano chiuso lì. Il primo mese giocammo sempre insieme. Scaduto quel periodo, detto di osservazione, o qualcuno ti veniva a prendere oppure il tuo destino era in un padiglione di internamento. Lui fu portato al 22 e io mi sono ritrovato di nuovo solo.
Dopo altre due settimane toccò a me. E qui la storia prende un carattere che non so descrivere. Potrei dirla così: sono finito all’elettrochoc per un equivoco. C’era un giovane medico, non il primario, che mi fece un mucchio di domande. A un certo punto mi chiese se io sentivo ogni tanto delle voci che mi chiamavano senza che ci fosse nessuno vicino. Io risposi candidamente di sì, ma volevo solo dire che ogni tanto qualcuno mi chiamava dal corridoio, insomma che ci sentivo bene. Io ero nuovo lì, non sapevo che l’espressione “sentire le voci” corrispondesse alle allucinazioni. Ho risposto di sì perché volevo dire che non avevo problemi di udito. Quando mi sono accorto dell’equivoco, o del tranello, ho cercato di correggere ma il dottore mi incalzava, era un incubo, e io ero confuso anche perché non ero abituato a parlare, non sapevo rispondere perché, da piccolo, non dovevo rispondere.
Io ho cercato di farmi capire ma lui ha scritto sul verbale che io non ero capace di spiegare la ragione per la quale sentivo le voci. Alla fine lui ha scritto qualcosa sulla cartella clinica: avevo uno “stato depressivo” il che mi rendeva, chissà perché, “una persona pericolosa”. La suora ha chiesto dove mi dovessero mandare. Lui ha risposto gelido: “Al padiglione sei a fare l’elettrochoc”.
Io mi sono subito spaventato. Quando ero con i bambini avevo visto applicare quella tecnica a un ragazzino, Claudio, e lui, a ogni scossa, era come se si alzasse in volo, se levitasse. Lo dovevano tenere per evitare che cadesse dal lettino. E poi faceva la bava alla bocca, mi aveva molto impressionato.
Tornando nella mia camerata ho chiesto a un’infermiera, si chiamava Teresa, se davvero lo avrebbero fatto anche a me. Lei mi rispose “Ma no, stai tranquillo. È per quelli che non capiscono.”. Mi rassicurò.
Ma poi mi chiamarono e mi ritrovai in una fila, tutti erano silenziosi più che disperati, gli avevano detto che dopo la cura sarebbero tornati a casa.
Arrivò il mio turno. Io volevo scappare. Avevo sentito che l’elettrochoc non si poteva fare agli anziani, ai malati di epilessia e a quelli con problemi al cuore. Allora, una volta entrato, dissi al medico che avevo male al cuore, sperando di farla franca. Lui mi appoggiò un istante lo stetoscopio al petto e disse che non avevo nulla e si poteva procedere. E procedettero. In quattro mi tennero mentre la suora mi inumidiva le tempie con un batuffolo bagnato di acqua e sale e mi appoggiava due elettrodi alle tempie. Io piangevo invocando la mamma che non avevo.
Il medico ha chiesto: “È pronto?”. La suora ha risposto: “Sì, è pronto”.
Poi non ho sentito più nulla. Mi sono risvegliato in una corsia piccola, con una sensazione penosa, non sapevo dove fossi e cosa stessi facendo, mi sentivo con la testa con la nebbia, i nervi del corpo tutti tesi.
Me ne hanno fatti tre, così. La cura prevedeva tre cicli di quindici applicazioni. Quarantacinque scosse alla tempia.
Ma poi anche io ho avuto una fortuna. Un giorno è venuta a trovarmi la benefattrice. L’aspettavo da tanto, mi aveva promesso che sarebbe venuta a trovarmi ma era passato più di un mese e non si era visto nessuno. Ero disperato, pensavo che mi avessero abbandonato tutti. Avevo quindici anni. Quando la signora è entrata e mi ha visto in quello stato, in quel padiglione, si è arrabbiata moltissimo. Non era quello che aveva concordato al momento del mio ricovero. Le dissero che c’era stato un disguido e mi mandarono subito al padiglione dei lavoratori. E lì sono rimasto fino al 1990.
Si sono avvicendati, nel tempo, vari direttori. Chi apriva i cancelli dei padiglioni, chi li chiudeva. Un direttore, Buonfiglio, diceva che i pazienti non erano dei reclusi, che dovevano muoversi, dovevano distrarsi. Organizzava feste, spettacoli, veniva spesso Claudio Villa. E anche gite. Vabbé solo una volta all’anno, ma erano bellissime. Ci si poteva anche incontrare con le donne, nascevano degli strani fidanzamenti. Ci si facevano i regalini, che so, un fazzoletto ricamato o cose così. Io avevo conosciuto una ragazza, avevamo fatto amicizia, stavo bene con lei. Ma dopo un mese è uscita e non l’ho più rivista.
Ho lavorato, per trent’anni, in tipografia, all’ufficio statistica e poi in biblioteca. Era per i medici, con testi specializzati, ma c’era un armadio con libri vari. E io li leggevo. Un infermiere una volta mi portò in regalo un pacco di riviste. Ne ero ghiotto. Mi piaceva lo sport, tifavo Venezia perché c’erano Loik e Valentino Mazzola. Poi il mio cuore lasciò posto al Grande Torino, dove giocavano i miei eroi. Di Superga seppi dalla radio e fu un dolore acuto, inconsolabile.
Un giorno vennero a dirmi che sarei uscito, avrei avuto un appartamento con altri al quartiere Ottavia. Stavo al Santa Maria della Pietà dal 1947 e ora eravamo nel 1990, la città fremeva per i mondiali. Ero entrato bambino e ora avevo quasi sessant’anni. Non sapevo cosa ci fosse fuori, in fondo stavo bene lì, tutti mi volevano bene. Quasi mi dispiaceva uscire. Quando nel quartiere seppero che stavamo per venire a vivere qui ci fu una rivolta, non ci volevano. “Questi arrivano dal manicomio, saranno pericolosi”. Hanno fatto pure manifestazioni. Poi, piano piano...
Per me era un’esperienza nuova. Solo quando ero piccolo avevo dormito da solo a casa. Dopo ero sempre in camerate insieme agli altri. Ora avevo una stanza tutta per me e una casa da condividere con altri come me. Avevo un po’ paura.
In manicomio ci ho lasciato un po’ di vita, tanta, e un po’ di cuore, tanto. Ho tanti ricordi.
Per esempio quando, attorno al 1968, vennero dei ragazzi a manifestare perché si aprissero le porte del manicomio. Avevano cartelli, bandiere, i capelli lunghi, esponevano le loro idee, idee di libertà. Parlavano di un professore che si chiamava Basaglia. Occuparono un padiglione. La polizia voleva mandarli via ma loro resistettero. Misero uno striscione con scritto “Centro sociale”. Ci facevano andare per corsi di ceramica, di lavorazione del cuoio. C’era anche un laboratorio di scrittura, che frequentai con passione.
Ed è lì che forse io, Alberto Paolini, ho finalmente imparato a parlare, a parlare con gli altri».
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Ho avuto un fidanzato una volta.
Una storia adolescenziale che mi ha insegnato tanto e che, ancora oggi, ricordo col sorriso sulle labbra.
È stato il mio primo amore e io sono stata il suo.
Ci amavamo tantissimo ed avevamo entrambi paura di perderci. Alla fine, però, ci siamo persi comunque.
Succede.
Ricordo che ogni volta che litigavamo, veniva da me col suo Liberty blu notte, si piazzava davanti il cancello di casa con della musica house ad alto volume per farmi capire che era giù ad aspettarmi.
Io sbirciavo dalle tapparelle della mia stanza pregando Dio che se ne andasse e che i miei non sentissero questo strampalato che ascoltava musica orribile.
Accendevo il cellulare - perché quando discutevamo, lo spegnevo - e gli inviavo un sms:
“Te ne devi andare.���
“No, resto qui finché non facciamo pace.”
Spegnevo di nuovo il cellulare e non mi muovevo di lì per vedere fino a quando resisteva.
Allora lui si metteva comodo con le braccia stese sul manubrio e iniziava a tenere il ritmo con la testa.
Di solito aspettavo una mezz’ora prima di scendere, ma lo facevo sempre.
Una volta, invece, dopo il mio solito messaggio, mise in moto e andò via.
Credo che in quel momento mi fosse caduto per la prima volta il mondo addosso, mi era parso addirittura di aver sentito il mio cuore spezzarsi.
Non mi aveva aspettato. Nessun altro messaggio per convincermi. Nessuno squillo insistente. Nessuna musica a tenere compagnia lui, me e i vicini. Se ne era andato sgommando.
Con rabbia lo chiamai e dissi:
“Ah, questo è tutto l’amore che provi per me? Bravo.”
Staccai senza nemmeno aspettare una risposta.
E lui non richiamò.
Cominciai a piangere e a prendermela con me stessa e con il mio stupido orgoglio.
Era una litigata che avremmo potuto evitare, ma io non evitavo mai, se non i suoi sguardi quando voleva capire cosa avessi dentro.
Avevo sempre paura che fossi un libro aperto per lui, quindi, abilmente, sapevo nascondere i miei occhi puntandoli su altro. Ma a lui non sfuggiva mai niente e quando ero particolarmente giù, ci chiudevamo in camera sua a guardare “La Bella e la Bestia”. Immancabilmente piangevo davanti la scena in cui la Bestia muore per tornare un essere umano e lui mi stringeva forte a sé. Mi sentivo protetta tra quelle braccia e quello che avevo dentro usciva fuori quasi senza accorgermene. Gliene parlavo, lui restava in silenzio ad ascoltarmi, poi, mi dava un bacio sulla testa: “Però sei scema, eh? Sei fortunata che mi piaci un casino, altrimenti, ti avrei già lasciato”, mi diceva. E insieme risolvevamo il mio nuovo dramma esistenziale.
Insieme abbiamo fatto un sacco di cose.
Con lui sono stata per la prima volta sulla neve.
Quel giorno mi disse: “Magari noi, tra qualche anno, non staremo più insieme, però, ti ricorderai sempre che sono stato il primo a portarti a fare il pupazzo di neve che tanto desideravi.”
E ogni volta che vado in montagna me lo ricordo quel pupazzo di neve grasso e basso che vestimmo con le nostre sciarpe. E ricordo anche che il giorno dopo beccammo entrambi la febbre a trentanove e non ci vedemmo per una settimana.
Lui è stato il primo che mi ha fatto battere forte il cuore.
Il primo che ho avuto paura di perdere seriamente.
Il primo di cui ero tremendamente gelosa ma, per non mostrarlo, facevo la dura e la permalosa.
Il primo che assecondava ogni mia stranezza. Davvero tutte.
Una volta, infatti, gli confessai che in estate, quando ho particolarmente caldo, mangio i cubetti di ghiaccio e mi sento subito meglio.
Quella sera andò in cucina e prese tutti i cubetti di ghiaccio che aveva nel freezer, li mise in due bicchieri di carta, tornò da me e me ne diede uno.
Si mise a sedere e iniziò a mangiare ghiaccio.
“Perché lo fai?” chiesi.
“Perché ti andava. Perché mi andava.”
Sorrisi imbarazzata.
“E mi sa che hai anche ragione. Mi sento più fresco e rilassato.”
“Non prendermi in giro.”
“Non ti prendo in giro, complessata – così mi chiamava – Mi sa che è la prima volta che non hai detto una cazzata. Mangia.”
“Io non dico cazzate.” Imbronciai.
“Ma tu le cazzate puoi dirne e farne sempre. Io ti vengo dietro. Non ti preoccupare.”
“Perché lo fai?” ripetei.
“Mi piace vederti felice. E se so che a renderti tale sono io, continuo per il resto dei miei giorni. Crea pure tutte le cazzate che vuoi. Sono pronto a viverle.”
Ne abbiamo fatte e create di cazzate.
L’ultima fu quella che lo vide andare via sgommando in sella alla sua moto.
Eravamo ragazzini, pensavamo che tutto si potesse risolvere guardando un film, ascoltando della musica orribile e mangiando ghiaccio come se fosse la cosa più normale di questo mondo.
Però, da sole queste cose, ad un certo punto non sono più bastate.
Strano come le cose semplici non bastino più quando si cresce.
Domani si sposa.
Lei è una donna fortunata.
Uno così lo avrei sposato anche io.
- Martina Boselli
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Soprattutto, mi sarebbe piaciuto conoscere meglio Ekaterina, che è deliziosa e manifesta una cordialità che credevo esclusiva delle attrici americane: ride molto, si stupisce di tutto ciò che le dite, e vi pianta in asso quando passa uno più importante di voi. ________________ Eduard capisce allora una cosa fondamentale, ossia che ci sono due categorie di persone: quelle che si possono picchiare e quelle che non si possono picchiare, non perché siano più forti o meglio allenate, ma perché sono pronte a uccidere . È questo il segreto, l'unico, e il bravo Eduard decide di passare nella seconda categoria: sarà un uomo che nessuno colpisce perché tutti sanno che è capace di uccidere. ________________ Naturalmente Gorkun ci è finito [nel campo di lavoro] per reati comuni, altrimenti non se ne vanterebbe con ragazzi come Eduard e i suoi amici che, al contrario di noi, non hanno alcun rispetto per i prigionieri politici e, pur non conoscendone nessuno di persona, li ritengono intellettuali saccenti, o cretini che si sono fatti sbattere dentro senza neanche sapere perché. I criminali, invece, sono degli eroi, soprattutto i membri di quell'aristocrazia criminale nota come vory v zakone, “i ladri che obbediscono alla legge”. […] A patto che si tratti di un criminale onesto, vale a dire rispettoso delle leggi del proprio gruppo, e sappia uccidere e morire, Gorkun considera un segno di ardimento e distinzione morale giocarsi a carte la vita di un compagno di baracca e, terminata la partita, sgozzarlo come un maiale, o trascinarne un altro in un tentativo di evasione con il proposito di mangiarlo quando in mezzo alla taiga saranno esauriti i viveri. ________________ Nel mondo dei “decadenti” di Char'kov, infatti, il genio ha il dovere di essere non soltanto misconosciuto ma anche avvinazzato, eccentrico, disadattato. E poiché l'ospedale psichiatrico è uno strumento di repressione politica, un soggiorno fra le sue mura rilascia una patente di dissidenza ________________ E poi i posti sulla nave della dissidenza sono tutti occupati. Ci sono già le star, se sale a bordo anche lui non sarà altro che un figurante - e questo no, mai. ________________ C'era la letteratura ufficiale. Gli “ingegneri dell'anima”, come una volta Stalin aveva definito gli scrittori. […] Quanto guadagnavano in comfort e sicurezza lo perdevano in autostima. Ai tempi eroici dei costruttori del socialismo, potevano ancora credere a ciò che scrivevano, essere orgogliosi di ciò che erano, ma al tempo di Brežnev, dello stalinismo morbido e delle nomenklatura, non potevano più farsi illusioni, Sapevano bene di essere al servizio di un regime corrotto e di aver venduto l'anima, e sapevano che gli altri lo sapevano. […] Gli intellettuali di regime, se non erano completamente abbrutiti o del tutto cinici, si vergognavano di quel che facevano, si vergognavano di quel che erano. […] Molti si rifugiavano nell'alcol; alcuni, come Fadeev, si suicidavano. I più furbi, che erano anche i più giovani, imparavano a giocare su due tavoli, pratica ormai possibile perché al potere facevano comodo questi semidissidenti moderati ed esportabili che Aragon si era specializzato nell'accogliere da noi a braccia aperte. _______________ …certo, gli under leggevano i dissidenti e facevano circolare le loro opere, ma, tranne rare eccezioni, non si esponevano agli stessi pericoli e soprattutto non erano animati dalla stessa fede. […] Il piccolo mondo gregario, caloroso, mordace di cui Venedikt Erofeev era l'eroe e Edička Limonov l'astro nascente, Solženicyn non lo conosceva neppure, e se lo avesse conosciuto lo avrebbe disprezzato. La sua determinazione e il suo coraggio avevano qualcosa di disumano, poiché Solženicyn si aspettava dagli altri ciò che chiedeva a se stesso. Giudicava vile scrivere di un argomento diverso dai gulag, perché questo significava tacere i gulag. _______________ C'è una foto in cui si vede Eduard in piedi, con i capelli lunghi, trionfante, e con addosso quella che lui chiama la sua “giacca da eroe nazionale” - un patchwork di centoquattordici pezzi variopinti che ha cucito lui stesso -, e ai suoi piedi Tanja, nuda, incantevole, gracile, con quei suoi piccoli seni sodi e leggeri che lo facevano impazzire. Quella foto Eduard l'ha sempre conservata, se l'è portata dietro dappertutto, e l'ha appesa come un'icona alla parete di ogni suo alloggio di fortuna, Quella foto è il suo talismano, Quella foto dice che, qualsiasi cosa accada, per quanto in basso possa cadere, un giorno lui è stato quell'uomo. E ha avuto quella donna. _______________ Tutto è grandioso nel destino di Solženicyn, il quale, due giorni dopo questa riunione, viene caricato di peso su un aereo diretto a Francoforte dove Willy Brandt lo accoglie come un capo di Stato. Il che dimostra però (ed era questo il cruccio, fondato, dell'irruente Podgornyj) che il sistema sovietico aveva perso il piacere e la forza di fare paura, mostrava i denti senza più crederci davvero, e invece di perseguitare i ribelli preferiva mandarli al diavolo. ________________ La piantina, poi, li sbalordisce per la sua precisione: se indica che nella seconda strada a destra c'è Saint Mark's Place, be', lì c'è davvero Saint Mark's Place, cosa inimmaginabile in Unione Sovietica dove le piantine, quando se ne trovano, sono immancabilmente sbagliate, o perché risalgono all'ultima guerra, o perché anticipano grandi opere pubbliche e mostrano la città come si spera sia tra quindici anni, o semplicemente perché mirano a disorientare il turista, sempre più o meno sospetto di essere una spia. ________________ Lui e Tanjia sono due giovani russi adorabili, due graziosi animali da compagnia, ed è ancora presto per uscire dal ruolo. Eduard se ne accorge quando azzarda un'osservazione sul gusto per i riconoscimenti che Brodskij nasconde dietro la sua aria da studioso sempre con la testa fra le nuvole. Tat'jana lo interrompe inarcando un sopracciglio: ha già superato il limite. ________________ Comunque ha ucciso degli uomini, e ne parla senza vantarsene. Un giorno Eduard gli confessa che non è sicuro di esserne capace. "Ma come no" lo rassicura Porfirij. "Quando non avrai scelta, lo farai, come tutti. Non preoccuparti". ________________ È [il Russkoe Delo] insomma un luogo caldo e rassicurante per chi è appena arrivato e non parla inglese, ma anche l'anticamera della fine in cui sono naufragate le aspettative di chi è venuto in America credendo che lo attendesse una vita nuova ed è rimasto impaniato in quell'accogliente tepore, in quei meschini battibecchi, in quelle nostalgie e in quelle vane speranze di un ritorno in patria. ________________ l'Hotel Winslow è un rifugio per i russi, soprattutto ebrei, che appartengono come lui alla "terza emigrazione", quella degli anni Settanta. Eduard è in grado di riconoscerli per strada, anche di spalle, dalla stanchezza e dall'infelicità che emanano. A loro pensava quando ha scritto l'articolo che gli ha fatto perdere il posto. A Mosca o a Leningrado erano poeti, pittori, musicisti, under di valore che se ne stavano al caldo nelle cucine, e ora, a New York, fanno i lavapiatti, gli imbianchini, i traslocatori, e per quanto si affannino a credere ancora ciò che credevano all'inizio - che è una situazione provvisoria e che un giorno i loro veri talenti saranno riconosciuti - sanno bene che non è così. Allora, sempre tra loro e sempre in russo, si ubriacano, recriminano, parlano della patria, sognano di avere il permesso di ritornarvi, ma non avranno mai il permesso di ritornarvi e moriranno lì, in trappola e beffati dal destino. ________________ Gli piace che Trockij dichiari apertamente. "Viva la guerra civile!". Che disprezzi i discorsi da donnicciole e da preti sul sacro valore della vita umana. Che dica che per definizione i vincitori hanno ragione e gli sconfitti torto e che il posto dei secondi è nella spazzatura della storia. Queste sì che sono parole virili, e gli piace ancor più quello che raccontava il vecchio del "Rosskoe Delo": il tizio che le ha pronunciate è passato in pochi mesi dalla condizione di esule morto di fame a New York a quella di generalissimo dell'Armata Rossa, uno che si spostava da un fronte all'altro a bordo di un vagone blindato. ________________ Secondo Brodskij, è una regola: soltanto un provinciale può diventare un autentico dandy. ________________ Quello che gli dispiacerebbe è morire da sconosciuto. Se "Io, Edička" fosse stato pubblicato e avesse avuto il successo che meritava, allora d'accordo: lo scandaloso scrittore Limonov ucciso da una raffica di Uzi a Beirut occuperebbe la prima pagina del "New York Times". Steven e i suoi pari leggerebbero la notizia tenendo il giornale sopra le loro crêpe allo sciroppo d'acero e si direbbero, con aria pensosa: "Questo è un uomo che ha vissuto veramente". Così sì varrebbe la pena. La morte da milite ignoto, no. ________________ Tutto sommato, Eduard preferisce ancora i genitori di Jenny, autentici rednecks del Middle West, a cui la ragazza vuole a tutti i costi presentarlo quando i suoi vengono a passare una settimana nella metropoli. Il padre lavorava per l'FBI e somiglia in modo sorprendente a Veniamin. Quando Eduard glielo dice, e aggiunge che il padre lavorava per il KGB, l'altro scuote la testa e dichiara con solennità che ci sono brave persone ovunque: "Il popolo americano e quello russo sono pieni di brave persone; sono i dirigenti che fanno le porcate, e gli ebrei". Racconta con orgoglio che Edgar Hoover gli ha mandato un regalo per la nascita di ciascuno dei suoi figli, e quando viene a sapere che Eduard scrive gli augura di avere lo stesso successo che ha avuto Peter Benchley, l'autore dello Squalo. Birra, camicia a scacchi, buon diavolo, senza malizia: a Eduard piace più della figlia. ________________ Steven non era tanto ingenuo da credere che il poeta russo gli volesse bene, ma forse pensava di piacergli, e in effetti era vero. Eduard non trovava Steven né stupido né odioso; non aveva niente di personale contro di lui, ma di fronte a Steven si sentiva come il mužik che pur obbedendo al barin aspetta che giunga la sua ora, e quando quell'ora sarà giunta entrerà dalla porta principale nella bella casa piena di oggetti d'arte del barin, la saccheggerà, gli violenterà la moglie, getterà a terra il barin stesso e lo prenderà a calci con un riso di trionfo. La nonna aveva descritto a Steven lo stupore dei nobili zaristi quando videro scatenarsi a quel modo i loro bravi Vanja tanto devoti e fedeli, che avevano visto nascere i loro figli ed erano sempre stati così carini, e penso che Steven abbia provato a suo volta lo stesso stupore nel leggere il libro dell'ex domestico. Per circa due anni Steven aveva vissuto senza alcun sospetto accanto a quell'uomo tranquillo, sorridente e simpatico, che gli era nemico nel più profondo dell'animo. ________________ finché sei cattivo, non sei diventato un animale domestico. ________________ Quello che volevo raccontare accade in un pulmino che riaccompagna gli scrittori in albero dopo l'ennesima tavola rotonda. A un semaforo rosso un camion militare affianca il pulmino, all'interno del quale si diffonde un brusio di deliziato spavento. "L'Armata Rossa! L'Armata Rossa!". Sovreccitati, con il naso incollato ai finestrini, tutti i membri di quella comitiva di intellettuali borghesi sono come i bambini al teatro dei burattini quando vedono uscire da dietro le quinte il lupo cattivo. Eduard chiude gli occhi con un sorriso soddisfatto. Il suo paese sa ancora fare paura a quegli occidentali senza palle: tutto a posto. ________________ ...dopo che Berija, a capo dell'NKVD sotto Stalin, era caduto in disgrazia ed era stato giustiziato, fu data disposizione ai sottoscrittori della Grande Enciclopedia sovietica di ritagliare dalla copia di loro proprietà la voce encomiastica dedicata a quel fervido amico del proletariato per sostituirla con una voce della medesima lunghezza sullo stretto di Bering. Berija, Bering: l'ordine alfabetico era salvo, ma Berija non esisteva più. Non era mai esistito. Allo stesso modo, dopo la caduta di Chruščëv, le biblioteche dovettero lavorare di forbice per eliminare Una giornata di Ivan Denisovič dai vecchi numeri della rivista "Novyj Mir". Il potere sovietico si arrogava il privilegio che san Tommaso negava a Dio: fare che ciò che era stato non fosse stato. E non era a George Orwell, ma a Pjatakov, un compagno di Lenin, che si doveva questa frase straordinaria: "Se il partito lo richiede, un vero bolscevico è disposto a credere che il nero sia bianco e il bianco nero". [...] "Il socialismo integrale non è un attacco a determinate storture del capitalismo ma alla realtà stessa. È un tentativo di sopprimere il mondo reale, un tentativo a lungo termine destinato a fallire ma che per un certo periodo riesce a creare un mondo surreale fondato su questo paradosso: l'inefficienza, la povertà e la violenza sono presentate come il bene supremo" [Martin Malia]. La soppressione della realtà passa attraverso quella della memoria. [...] Così un intero popolo faceva come se non fosse mai successo e imparava la storia sul breve compendio che il compagno Stalin si era preso il disturbo di scrivere personalmente. ________________ Non gli piaceva trovare in un negozio di articoli militari d'occasione un cappotto da soldato dell'Armata Rossa, e accorgersi che i bottoni di ottone della sua infanzia erano stati sostituiti da bottoni di plastica. Un particolare, ma un particolare che, secondo lui, diceva tutto. Quale immagine poteva avere di se stesso un soldato ridotto a indossare divise con bottoni di plastica? Come poteva combattere? A chi poteva fare paura? [...] Un popolo i cui soldati sono infagottati in divise a buon mercato è un popolo che non ha più fiducia in se stesso e non ispira più rispetto ai vicini. È un popolo che ha già perso. ________________ ...ma no, c'è qualcos'altro, qualcosa che eccita i suoi compagni di baldoria e a lui procura invece un profondo disgusto. Ci mette un po' a rendersene conto, ma quest'altra cosa che lo ha colpito ancora prima di entrare è lo sguardo del poliziotto appostato sul marciapiede. Non è un vigilante pagato dal ristorante, ma un poliziotto vero, vale a dire un rappresentante dello Stato. Una volta un rappresentante dello Stato, anche di grado subalterno, era rispettato. Incuteva timore, Ora il poliziotto all'ingresso non incute timore a nessuno, e lo sa. I clienti gli passano davanti senza neanche vederlo. Se hanno paura di qualcuno, non è certo di lui. Sono loro che hanno il denaro, loro che hanno il potere, e ormai quel poveraccio in divisa è al loro servizio. ________________ All'ingresso dei bagni c'è un'inserviente imbronciata, che Eduard vorrebbe abbracciare proprio perché è imbronciata, sovietica, perché non somiglia ai furbetti che si abbuffano qualche metro più su ma alla gente povera e onesta in mezzo alla quale è cresciuto. Prova a parlarle, a sapere che cosa pensi di quanto sta accadendo nel paese ma, come il conducente del pulmino, la donna si rabbuia ancora di più. È terribile: la gente comune con cui Eduard vorrebbe fraternizzare non gli dà corda, e invece a quelli che si mostrano bendisposti lui vorrebbe soltanto spaccare il muso. ________________ Eduard pensa che è un po' troppo facile vivere nel comfort e nella libertà, e voler tenere gli altri al riparo da tutto ciò per il bene della loro anima ________________ Non c'è nessuno dei suoi amici, ma Eduard riconosce dei volti intravisti in passato in occasione di qualche festa o di una lettura di poesia. Volti di comparse, volti spenti, rosi dall'odio per se stessi. E come sono diventati vecchi! Lividi o paonazzi, gonfi, sciupati. Non sono più under, certo, ora che tutto è permesso tornano alla luce, e la cosa terribile è che la loro assoluta mediocrità, misericordiosamente occultata in gioventù dalla censura e dalla clandestinità, è sotto gli occhi di tutti [...] L'insuccesso era nobile, l'anonimato era nobile, persino il decadimento fisico era nobile. Potevano sognare che un giorno sarebbero stati liberi, e quel giorno sarebbero stati acclamati come eroi, perché avevano custodito per le generazioni future, sotterraneamente e in clandestinità, il meglio della cultura russa. Ma, arrivata la libertà, non interessano più a nessuno. ________________ Scende la notte, Eduard non riesce a prendere sonno. Pensa alle poche lettere che ha ricevuto dai genitori durante la sua lunga assenza. Lettere lagnose, zeppe di stupidaggini e recriminazioni perché l'unico figlio che avevano non sarebbe tornato a chiudere loro gli occhi. Scorreva quelle lettere senza leggerle veramente, si rifiutava di compatire i genitori, ringraziava il cielo di averlo portato lontano dalle loro vite pavide e rattrappite. Un cattivo figlio? Forse, ma intelligente, e quindi senza pietà. La pietà rammollisce, la pietà avvilisce; e la cosa terribile è che da quando ha rimesso piede nel suo paese si sente invadere, oltre che dalla collera, dalla pietà. ________________ Quando è crollato il comunismo, Zachar [Prilepin] e i suoi amici avevano circa quindici anni. La loro infanzia era trascorsa in Union Sovietica ed era stata più bella dell'adolescenza e della prima età adulta. Quei giovani ricordavano con tenerezza e nostalgia il tempo in cui le cose avevano un senso, il denaro non era molto ma non c'erano nemmeno molte cose da comprare, le case erano ben tenute e un ragazzino poteva guardare con ammirazione il nonno perché era stato il migliore trattorista del suo kolchoz. Avevano vissuto la sconfitta e l'umiliazione dei genitori - gente modesta ma orgogliosa di essere ciò che era -, ridotti in miseria e privati anche dell'orgoglio. Credo che fosse soprattutto questo a riuscire insopportabile a Zachar e a quelli come lui. ________________ A differenza della maggior parte degli stabilimenti penitenziari russi, Lefortovo non è sporco, non è sovraffollato, non ci sono stupri né pestaggi; in compenso, si è sottoposti a un rigido isolamento. Non soltanto non si è costretti a lavorare, ma, anche volendo, non è permesso farlo. Le celle- singole, bianche, asettiche - sono tutte fornite di televisione, così i detenuti possono guardarla da mattina a sera, e questa soffice dipendenza li fa sprofondare presto o tardi nell'apatia, e poi nella depressione. La passeggiata quotidiana si svolge all'alba sul tetto della prigione, ma a ciascuno è riservato un recinto di pochi metri quadrati interamente circondato da una rete metallica, e per evitare che i progionieri possano scambiarsi qualche parola da una gabbia all'altra, gli altoparlanti diffondono musica a un volume così assordante che anche urlando a squarciagola non si riuscirebbe a sentire la propria voce. Ma nemmeno questa sgradevole passeggiata è obbligatoria, e molti finiscono per farne a meno: restano a letto, si girano contro il muro, non respirano mai più all'aria aperta. ________________ Forse il momento più mirabile della vita di Eduard, quello in cui è stato più vicino a essere ciò che sempre, strenuamente, con la cocciutaggine di un bambino, ha cercato di essere: un eroe, un uomo davvero grande. ________________ Il bravo zek è uno zek abbattuto, incapace di reagire: anche questo è intenzionale. ________________ E poi, senza preavviso, tutto si ferma. Il tempo, lo spazio: eppure non è la morte. Nulla di quanto lo circonda ha mutato aspetto, né l'acquario, né i pesci nella tinozza, né l'ufficio, né il cielo oltre la finestra dell'ufficio, ma è come se tutto ciò fosse stato fino a quel momento soltanto un sogno e d'un tratto diventasse pienamente reale: elevato al quadrato, svelato e insieme annullato. Eduard viene risucchiato da un vuoto più pieno di tutto ciò che è pieno al mondo, da un'assenza più presente di tutto ciò che riempie il mondo della propria presenza. Non è più da nessuna parte ed è interamente lì. Non esiste più e non è mai stato così vivo. Non c'è più nulla, c'è tutto. La si può chiamare "trance", "estasi", "esperienza mistica". [...] Oppure si può, come Eduard, tornare nella propria baracca, sdraiarsi sul materasso, prendere il quaderno e scrivere: "Questo mi aspettavo da me. Ora nessun castigo può toccarmi, perché saprò trasformarlo in felicità. Uno come me può trarre gioia anche dalla morte. Non tornerò alle emozioni dell'uomo comune". ________________ Nel proprio paese era diventato la star che aveva sempre sognato di essere: scrittore osannato, guerrigliero mondano, habitué dei giornali scandalistici. Appena rimesso in libertà, aveva scaricato la valorosa piccola Nastja per buttarsi su una di quelle donne di categoria A alle quasi non ha mai saputo resistere: un'incantevole attrice diventata famosa con un telefilm intitolato KGB in smoking. I suoi trascorsi carcerari ne facevano un idolo dei giovani, l'alleanza con Kasparov un uomo politico presentabile, e non escludo che Eduard abbia immaginato veramente di arrivare al potere sull'onda di una rivoluzione di velluto, com'era accaduto in passato a Václav Havel. ________________ Di tutti i luoghi del mondo, continua Eduard, l'Asia centrale è quello in cui si trova meglio. in città come Samarcanda o Barnaul. Città schiantate dal sole, polverose, lente, violente. Laggiù, all'ombra delle moschee, sotto le alte mura merlate, ci sono dei mendicanti. Un sacco di mendicanti. Sono vecchi emaciati, con i volti cotti dal sole, senza denti, spesso senza occhi. Portano una tunica e un turbante anneriti dalla sporcizia, ai loro piedi è steso un pezzo di velluto su cui aspettano che qualcuno getti qualche monetina, e quando qualche monetina cade non ringraziano. Non si sa quale sia stata la loro vita, ma si sa che finiranno nella fossa comune. Sono senza età, senza beni, ammesso che ne abbiano mai avuti - è già tanto se hanno ancora un nome. Hanno mollato tutti gli ormeggi. Sono dei derelitti. Sono dei re. Questo sì che gli piace.
Emmanuel Carrère, Limonov
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ㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤ ㅤㅤ ʟɪғᴇ ᴘɪʟʟs ❚ manhattan, ny new update ﹫ opheliagrimaldi h. 15.23, september 09th, 2022 ❪ 🌑 ❫ ㅤㅤ ㅤㅤ ㅤ Una rosa bianca. Un semplice fiore, come ce ne sono tanti in natura, dalle primule alle orchidee, dalle margherite ai girasoli, ma la cui immagine diventa simbolo di un amore puro, candido e spirituale, come quello di un popolo nei confronti del proprio regnante. Amore incontaminato, posto sopra un bene più grande, ma pur sempre amore. Allora perché associarlo alla morte? Perché associarlo ad un ricordo così doloroso? Basta davvero cos poco per scatenare ricordi assopiti, silenzi che diventano assordanti per quanto fanno male? Basta solamente un fiore? Scivola il mio sguardo su quei petali, delicati e immobili, di un candore che fa male agli occhi per il loro riflesso luminoso, mostrandosi come carezze velate di n affetto commosso che diventa quasi troppo pesante da affrontare. E allora chi sono davvero? Un popolo che soffre una perdita dolorosa, uno strappo che lacera l'anima, scavando un vuoto che non si pensava di poter affrontare, una mancanza che diventa via via più consistente quando la realtà s'abbatte sulla sconfitta. Tutto diventa confuso, i ricordi si mescolano a ciò che vedo, passato e presente diventano un'unica faccia della stessa medaglia, e l'immagine di quella bara coperta dai colori della mia bandiera, bianco e rosso, sono intrisi dell'amore e della sofferenza. Amore e sangue. Affetto e sacrificio. Un passo alla volta, gli otto uomini in alta uniforme percorrono i duecento metri che separano il palazzo dalla chiesa ottocentesca, tra i vicoli del centro storico, quello stesso luogo dove giace lei, l'amore di una vita, l'amore contrastato e da sempre giudicato, l'amore a cui ho sempre ispirato. Ma quei duecento metri diventano una forma di distanza, di lontananza e diversità che si averte tra me e loro, tra regnante e popolo. Eppure il dolore è il mio come il loro, la perdita che affronto è la stessa che loro dovranno affrontare. Qual è la differenza dunque? E poi le lacrime, lacrime di una bambina che ha perso troppo presto il suo punto di riferimento, l'uomo che le ha insegnato ad amare, l'uomo che le insegnato che tutto avviene per una ragione, l'uomo che di fronte alla scelta più ardua le ha sempre di detto di scegliere il sacrificio per un bene più grande. Piangono le persone accanto a me, lo sento il loro cordoglio, il loro affetto, la stima che avevano nei confronti del "Principe Costruttore", nel loro regnante eppure vi è silenzio. Un colpo di tamburo sancisce il battito del mio core, adesso come allora, la marcia continua, e la banda offre un Beethoven che immancabilmente ricorda lui, il suo volto, il suo sorriso, il suo amore. Tutto è immobile, cristallizzato della mia memoria di bambina, nella memoria di una donna, adesso, che è di fronte al suo destino. Trentasei colpi di cannone vengono sparati dal forte genovese, la rocca diventa dominio del dolore, e ogni colpo è un tonfo nel petto. Chiudo gli occhi, una lacrima sgorga, accarezza il velluto della mia gota come il petalo di una rosa che si stacca cadendo a terra. Ed io lo faccio, vado incontro al mio destino.
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Baby monitor sono un must per la sicurezza del bambino. A maggior ragione nei primi mesi, dovete tenerlo sotto controllo. Anche mentre dorme :-) Attenzione, però: prendersene cura non significa affatto rinunciare a qualche momento di relax. Poniamo che in tv ci sia un filmone… come seguirlo e tenere sotto controllo il piccolo? Si fa affidamento su questi dispositivi, introdotti nel recente passato. I brand hanno già compiuti passi da gigante e non smettono di prefissarsi standard qualitativi eccelsi. Gli studi settoriali dimostrano come mamma e papà siano sempre più costretti a destreggiarsi fra mille impegni, tra casa e lavoro. E, giustamente, nei pochi momenti “liberi” desiderate anche riposare. Già ci penserà il piccolo di notte a farvi fare le notti in bianco! Andiamo a conoscere dunque cosa sono i baby monitor, come sfruttarli appieno e quali sono dei modelli affidabili. Qual è il baby monitor migliore? Vediamo dunque un po’ di chiarire, anche per i non esperti, perché risultano poi tanto interessanti. Anzitutto, premettiamo che ce ne sono, sostanzialmente, di due tipi, più o meno avanzati e cari nei prezzi. In parole povere, la versione ‘base’ prevede due walkie-talkie (moderni!) per comunicare da una stanza all’altra della casa. Pertanto si può sentire cosa sta combinando il piccolo, anche nell’altra stanza. Poi ce n'è una progredita, che riprende, istante dopo istante, se il bimbo dorme serenamente. Oppure se, ahinoi, piange a dirotto… Consapevoli che avrà una microtelecamera sempre accesa, vi rilasserete “senza” (siamo genitori, che ci vuoi fare…) cattivi pensieri. In fase d'acquisto vanno ponderati vari parametri. Non esiste il più e il meno buono a prescindere. Piuttosto chiedetevi: cosa andate cercando? La forbice dei prezzi è ampia: quello che per un amico potrebbe essere una funzionalità indispensabile, per voi potrebbe rivelarsi superfluo. Poniamo che lui non tolleri quegli scomodi fili, sparsi in giro. Al contrario, voi lo ritenete un fastidio sopportabilissimo. Qui converrete pure voi che si può mirare a prodotti più economici. Avrebbe d'altronde poco senso spendere grosse cifre per qualcosa di cui vi importa relativamente... E ancora, alcuni prodotti, prevedono una videocamera al seguito. Altri no. Pensateci su: quanto ci terreste a osservarlo nei suoi piccoli gesti? Così che fotografiate, nella vostra memoria, tanti bei momenti in più? Come per le funzionalità, così a livello estetico, i babyphone su livingo lasciano ampia libertà di scelta. Ovviamente, a tema bebè. Cosa preferite tra un simpaticissimo animale o l’immagine di qualche cartone animato sta a voi dirlo ;-) Per rimaner soddisfatti studiatevi le schede tecniche. Iniziamo con la portata: volete seguire le prodezze del campioncino anche quando siete in giardino? Prendete poi in analisi i dispositivi che posseggono un buon raggio d'azione. Provate a recuperare quante più info a riguardo: che qualità ha? Desiderate una manovella con cui regolare manualmente il volume? Chissà, magari abitate in una zona rumorosa o nei fine settimana siete abituati ad invitare una bella comitiva, con cui, immancabilmente, si finisce per fare salotto… Sotto il materasso del bambino alcuni baby monitor dispongono di una tavoletta-sensore, collocabile al di sotto. Così facendo, controllano costantemente il respiro. Se si ferma per oltre 20 secondi ecco scattare l'allarme. In un ambiente totalmente buio, certi attivano pure la visione notturna. Infine, per chi non riesce proprio a separarsi dallo smartphone c’è anche la funzione video con iOS e/o Android: si scarica la baby monitor app gratuita ed è possibile anche scattare foto o girare video. Consigli per gli acquisti Poiché la lista è piuttosto numerosa, ne abbiamo scelti tre, uno per ciascuna fascia: bassa, media e alta. Tigex 80800967 Se avete budget limitato fate un pensierino su Tigex 80800967. In rapporto al prezzo, vanta una qualità del suono sicuramente soddisfacente (il volume è regolabile su 5 livelli) e si connette senza problemi.
Peraltro, non disturba affatto. La modalità Standby entra automaticamente in funzione quando il bambino dorme profondamente: così eviterà di svegliarlo! Tra le dotazioni un allarme visivo a 5 LED, e quello acustico, che suona 30 minuti se la batteria è quasi scarica, prima dello spegnimento. L'unità genitore funziona a batterie. Oppure, in alternativa, ricorrendo all’adattatore CA: converte le correnti elettriche ricevute da presa elettrica in una corrente alternata, solitamente inferiore, che possa utilizzare un qualsiasi dispositivo elettronico. Angelcare AC420 Angelcare AC420 fa leva su un trasmettitore, munito di luce notturna. Piace perché pratico e per nulla ingombrante. Il clip contribuisce al trasporto. L’unità genitore, ricaricabile, possiede uno schermo a colori: mostra le funzioni proposte, nonché la temperatura della camera, dove il bambino dorme. La portata arriva fino a 250 metri. In quanto al trasmettitore, esso si attiva vocalmente. Se il ricevitore è fuori portata ne dà tempestivo avviso, mediante un segnale acustico, nitido e chiaro. Tattou babyphone Telecamera, visione notturna, proiettore, ninne nanne, display della temperatura, citofono e funzione rilevatore di movimento: quest'ultimo modello comprende ogni comfort. Qui, oltre al segnale sonoro, mostra in video cosa succede nella stanza del bambino. Ad installazione completata (richiede solo pochi minuti) potrete sorvegliarlo direttamente dal telefono cellulare. Se l'avessero saputo i nostri! Per trarne uso è sufficiente scaricare l'app sullo smartphone. Sfruttando connessione Wi-Fi, si rinuncia a fili tanto quanto agli allacciamenti esterni. Ovunque sarà perciò possibile avere un quadro dettagliato su come se la sta passando il vostro pargoletto ;-) Per scongiurare il rischio di radiazioni, è possibile inoltre utilizzare il cavo Ethernet. Spendiamo infine volentieri due parole sulla modalità notturna del baby monitor: a prescindere da quanto scura sia la stanza, seguirete il bambino in ogni suo movimento... c'è il segnale a infrarossi!
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19 feb 2021 16:20
CHI NON E’ CASTO, CERCHI DI ESSERE CAUTO! SESSO NEI SEMINARI, LA VITA DEI FUTURI PRETI TRA CHAT E RELAZIONI GAY NEL LIBRO DEL SOCIOLOGO MARCO MARZANO - I SEMINARISTI SI MASTURBANO E TALVOLTA FANNO SESSO TRA DI LORO, CON I SUPERIORI O CON QUALCUNO ALL'ESTERNO DELL'ISTITUZIONE. I CAPI SEDUCONO GLI ALLIEVI - UN PRETE OMOSESSUALE È SEMPRE STATO NEI FATTI PREFERIBILE PER L'ISTITUZIONE A UNO ETEROSESSUALE: COL PRIMO L'ORGANIZZAZIONE CORRE MENO RISCHI DI SCANDALI PERCHÉ…
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Franca Giansoldati per ilmessaggero.it
Foto oscene, esplicite, provocanti. Un selfie scattato persino davanti alla statua di una Madonna, probabilmente in una chiesa. E' quello che circola sulle chat di incontri privati da Tinder a Grindr dove, dietro pseudonimi, si celano seminaristi o giovani sacerdoti in cerca di occasioni per liberare la propria sessualità.
E' una analisi impietosa e brutale quella fatta dal sociologo Marco Marzano, ordinario di sociologia a Bergamo, in un libro che non mancherà di fare discutere: La casta dei casti, edito da Bompiani (263 pagine, 13).
Attraverso un lavoro capillare condotto in diverse zone d'Italia, con questionari e interviste a campione, tra seminaristi e altri esponenti del clero, il sociologo ha tratteggiato una realtà fatta di luci e ombre, documentando soprattutto come il tema tabù del sesso nei seminari, sia «ampiamente presente».
Tra le pagine affiora non solo il grande problema delle vocazioni che in Italia sono ormai al lumicino, ma anche la difficoltà ad accompagnare nella crescita, in modo equilibrato, i ragazzi delle generazioni Z all'interno di strutture ecclesiali evidentemente impreparate ad interfacciarsi con i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni.
Il libro documenta poi di come il sesso nei seminari sia ampiamente presente. Scrive Marzano: «I seminaristi si masturbano e talvolta fanno sesso tra di loro, con i superiori o con qualcuno all'esterno dell'istituzione. I capi seducono gli allievi, che a loro volta si seducono l'uno con l'altro. La preoccupazione autentica è che il giovane funzionario impari a nascondere quello che fa tra le lenzuola e a raccontarlo, questa volta nei dettagli, solo nell'intimità del confessionale.
Cioè solo in un modo che serve alla stessa istituzione per capire di che pasta sia fatto l'apprendista funzionario, se sia il caso o meno di investire su dil ui, come uomo di Dio. In definitiva l'unico effetto della repressione ideologica del sesso è quello di spingerlo nell'ombra, di confinarlo nel silenzio, di circondarlo con il segreto e la circospezione. Il divieto di farlo è pura apparenza, il divieto di parlarne è invece sostanza».
Nello studio il sociologo passa a setaccio le varie chat di incontri, analizzando il contenuto delle conversazioni tra preti e giovani seminaristi, descrivendo conversazioni «di natura esplicitamente ed esclusivamente erotica ed è immancabilmente corredato da volgarità esplicite, di un linguaggio incredibilmente scurrile con foto di video immagini di corpi nudi, organi sessuali ma anche posteriori dei giovani sacerdoti in varie pose e in vari luoghi, persino davanti alla statua della Madonna».
La tesi di questa analisi è che la centralità del sesso e dell'amore nella trama della vita organizzativa dei seminari è tutt'altro che qualcosa di marginale: «si evince in primo luogo dal fatto che questi temi nella vita dei futuri preti sono tabù assoluti, oggetti dei quali è di fatto del tutto proibito parlarne».
Questo anche se l'omosessualità in seminario e poi nella vita clericale non sia affatto un problema per chi guida la chiesa cattolica. Quasi una contraddizione. Scrive ancora Marzano: «Al contrario un prete omosessuale è sempre stato nei fatti largamente preferibile per l'istituzione a uno eterosessuale, col primo l'organizzazione corre meno rischi di scandali, fughe e clamorosi abbandoni.
Soprattutto la stigmatizzazione della omosessualità operata dalla dottrina cattolica ha concretamente consolidato la sottomissione dei sacerdoti gay, i quali, vuoi in ragione di una autosvalutante interiorizzazione della omofobia o semplicemente perchè più bisognosi della protezione accordatale dalla istituzione si sono tradizionalmente rivelati assai piu zelanti, conservatori, disciplinati e ortodossi di quelli etero».
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Margherita Hack: 15 Frasi Memorabili Per Ricordarla
Margherita Hack, scienziata e straordinaria divulgatrice di conoscenza, ha saputo appassionare milioni di persone ai misteri dell'Universo e della vita. Una sorta di 'Notte stellata con Margherita Hack', tutta a pointillisme dell'artista Fabio Leone, in arte Aleef, ci introduce questo splendido personaggio. Un personaggio unico Margherita Hack. Divulgatrice infaticabile, scienziata impeccabile e ma anche donna tenera e dolce. Negli anni ha raggiunto una popolarità, presso il grande pubblico, che non ha uguali per un ricercatore italiano. Ha introdotto la scienza nelle case di tutti. E questo è accaduto naturalmente grazie alla sua verve innata e la sua straordinaria capacità di comunicare. La Hack, per i giornalisti, era una certezza. Sempre disponibile, offriva immancabilmente il suo commento non banale. Ma quale nonna e nonna, dentro mi sento una giovincella io!Margherita Hack Di indole tranquilla, ma non sempre, Margherita Hack, nel privato, era più pacata di come la si vedeva per esempio in televisione. Quando, però, si trovava una platea davanti si illuminava, e non si risparmiava mai. Avrebbe sempre parlato per ore, adorava divulgare le sue conoscenze e trasmettere, ai più giovani, e ai più curiosi, il suo sapere. Almeno fino a quando il suo mitico marito Aldo, conosciuto da ragazzina a Firenze e compagno letteralmente da una vita, dalla prima fila l'apostrofava con il suo nomignolo dicendo: "Oh Marga, adesso l'è ora di andare a casa!".
Il 12 giugno 1922 nasceva a Firenze, Margherita Hack. E noi vogliamo ricordarla attraverso la sua abilità di divulgatrice e comunicatrice, con la selezione di 15 sue frasi memorabili. Partiamo dalle leggi morali e dalla religione... Le leggi morali non ce le ha date Dio, ma non per questo sono meno importanti. Questa dovrebbe essere l’etica dominante, senza aspettarsi una ricompensa nell’aldilà. Senza leggi etiche ci sarebbe il branco e non la società. E andrebbero insegnati valori comuni a credenti e non, il perdono, non fare del male agli altri, la solidarietà. Ma, soprattutto, bisognerebbe imparare a dubitare, a diventare scettici. Non è necessario avere una religione per avere una morale, perché se non si riesce a distinguere il bene dal male quella che manca è la sensibilità, non la religione. Nella vita non c’è nulla da temere, solo da capire.
... su Gesù... Gesù è stato certamente la maggior personalità della storia. Il suo insegnamento, se è resistito per 2000 anni, significa che aveva davvero qualcosa di eccezionale: ha trasmesso valori che sono essenziali anche per un non credente. ... e su Eva... La colpa di Eva è stata quella di voler conoscere, sperimentare, indagare con le proprie forze le leggi che regolano l’Universo, la Terra, il proprio corpo, di rifiutare l’insegnamento calato dall’alto, in una parola Eva rappresenta la curiosità della scienza contro la passiva accettazione della fede. ... ma anche sul Paradiso...
Preferisco il protone al Paradiso. Penso che il cervello sia l’anima, non credo alla vita dopo la morte e tanto meno a un Paradiso in versione condominiale, dove reincontrare amici, nemici, parenti, conoscenti. ... però poi era così intellettualmente onesta da ammettere... La scienza non riesce a dare una risposta totale. Quindi il mistero c’è certamente. Se quando morirò dovessi scoprire che c’è la vita eterna, direi a Dio che ho sbagliato. E forse tutto sommato, sarebbe bello essersi sbagliati. Poi spaziava... Le persone vere spaventano. Per questo spesso rimangono sole. Perché sono sincere, sono oneste e quando vogliono dire qualcosa, lo dicono nel modo più vero che conoscono.
La scelta vegetariana non è solo determinata dal rifiuto di uccidere, ma è anche quella più salutare ed economicamente più vantaggiosa, perché si sfamano molte più persone direttamente con i prodotti della terra che non con gli animali nutriti con questi prodotti. Alle donne dico di non sentirsi mai inferiori e di procedere come ho sempre fatto io: combattive, piene di fiducia in se stesse e rispettose di colleghi o avversari, ma intransigenti di fronte a qualunque sottostima del loro lavoro. ... e irrompeva sulla scuola e la politica senza mezzi termini... Invece di far uscire dalla classe quelli che non vogliono seguire la lezione di religione cattolica, forse bisognerebbe lasciare al loro posto quelli che vogliono seguire le lezioni normali e, se proprio vogliono, far uscire quelli che desiderano un’ora di religione dando loro la possibilità di seguirla altrove. Chissà quanti sceglierebbero ancora l’«ora di religione» rispetto a un’ora aggiuntiva, ad esempio, di astronomia. La scarsa considerazione che la nostra classe politica, e in particolare quella più recente, riserva all’istruzione, all’università e alla ricerca è la conseguenza del basso livello culturale della gran maggioranza degli eletti in Parlamento. Ed infine sul suo grande amore: le stelle. Con ragione...
Foto di © MARCOTULLI/SINTESI Nella nostra galassia ci sono quattrocento miliardi di stelle, e nell’universo ci sono più di cento miliardi di galassie. Pensare di essere unici è molto improbabile. ... e poesia... Tutta la materia di cui siamo fatti noi, l’hanno costruita le stelle; tutti gli elementi, dall’idrogeno all’uranio, sono stati fatti nelle reazioni nucleari che avvengono nelle supernove, cioè queste stelle molto più grosse del Sole, che alla fine della loro vita esplodono e sparpagliano nello spazio il risultato di tutte le reazioni nucleari avvenute al loro interno. Per cui noi siamo veramente figli delle stelle. ed io aggiungo questo ultimo pensiero, che, ribadendo il concetto di 'cielo srotolato' mi ricorda molto il cielo di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. E’ così bello fissare il cielo e accorgersi di come non sia altro che un vero e proprio immenso laboratorio di fisica che si srotola sulle nostre teste.Margherita Hack LEGGI ANCHE... Albert Einstein: 18 Curiosità Sul Genio Della Fisica Quale aforisma di Margherita hack preferite? Fatemelo sapere. Ciao Da Tommaso! Vieni a visitarci sulla nostra pagina Facebook e Metti il tuo MiPiace! Condividi il nostro articolo sui tuoi social >> Read the full article
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☆ — ♯ 𝐀𝐁𝐎𝐔𝐓 𝐇𝐄𝐑 ☆ ᴀɢɴᴇs ᴍɪᴀ ʀ. ʟᴏ̈ғᴠᴇɴ ☆ ❪ ❄️ ❫ { 𝘽𝙚𝙙𝙩𝙞𝙢𝙚𝙌𝘼 } ; tag from: Grethe taggo: Thomas, Alexios, Alejandro, Diana, Anastasia, Charles, Aksel, Maëlys, Dave Gorislav, Ɲeɾea e Tatiana.
✩ 𝐏𝐫𝐞𝐟𝐞𝐫𝐢𝐬𝐜𝐞 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐫𝐞 𝐝𝐚 𝐬𝐨𝐥𝐨 𝐨 𝐢𝐧 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐚𝐠𝐧𝐢𝐚? Fin da quando era bambina, Agnes aveva un peluche a forma di orso che portava ovunque andasse. Che fosse un viaggio di lavoro del padre o una trasferta di basket, v'era sempre quel peluche che le teneva compagnia. Ora che è più grande, Agnes ha ormai abbandonato il suo peluche, ma ammette di preferir dormire assieme a qualcuno che l'abbracci e la faccia sentire al sicuro. ✩ 𝐐𝐮𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐞̀ 𝐬𝐨𝐥𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐫𝐞 𝐞 𝐪𝐮𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐢𝐦𝐩𝐢𝐞𝐠𝐚 𝐚𝐝 𝐚𝐝𝐝𝐨𝐫𝐦𝐞𝐧𝐭𝐚𝐫𝐬𝐢? Per far sì che Agnes abbia le giuste energie per affrontare al meglio la giornata, deve dormire almeno sei ore, ma il prendere sonno a volte è davvero un limite. Più e più volte rischia di accorgersi di non aver dormito affatto, soprattutto se ha tra le mani l'ennesimo romanzo preferito del momento e solo una cosa la fa davvero crollare: una nottata di buon sesso. ✩ 𝐐𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐩𝐨𝐬𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐩𝐫𝐞𝐟𝐞𝐫𝐢𝐬𝐜𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐚𝐝𝐝𝐨𝐫𝐦𝐞𝐧𝐭𝐚𝐫𝐬𝐢? Nelle occasioni in cui s'addormenta con un buon libro tra le mani, Agnes si addormenta a pancia in su ed immancabilmente con il volto appena girato verso sinistra. Tuttavia, il più delle volte è a pancia in giù che si ritrova, spesso allungando il braccio in cerca del suo compagno. ✩ 𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐟𝐚 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 𝐝𝐢 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐫𝐞? Agnes leggerebbe tutto il giorno, ma il momento in cui preferisce farlo è poco prima di addormentarsi, nel silenzio della sua grande camera da letto. C'è da dire però che, in presenza del suo compagno, preferisce di gran lunga dedicarsi ad attività ben più movimentate. ✩ 𝐅𝐚 𝐢𝐧𝐜𝐮𝐛𝐢? 𝐐𝐮𝐚𝐥𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐢 𝐬𝐮𝐨𝐢 𝐬𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐫𝐢𝐜𝐨𝐫𝐫𝐞𝐧𝐭𝐢? Difficilmente Agnes sogna, ma quando lo fa, i suoi sogni sono i più disparati. Ci sono stati sogni ricorrenti in cui era protagonista di un film thriller, e altri che era protagonista della storia d'amore di turno che aveva letto poco prima di addormentarsi. Fortunatamente fa raramente degli incubi, tuttavia è successo e quando accade, riprendere a dormire è per lei pressoché impossibile. ✩ 𝐂𝐮𝐬𝐜𝐢𝐧𝐨 𝐚𝐥𝐭𝐨 𝐨 𝐛𝐚𝐬𝐬𝐨? 𝐓𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐜𝐨𝐩𝐞𝐫𝐭𝐞 𝐨 𝐩𝐨𝐜𝐡𝐞? Nonostante le poche ore che Agnes trascorre per dormire, la svedese predilige un cuscino basso, ancor meglio se è quello per la cervicale. Crescendo ha scoperto che una delle fonti dei suoi più frequenti mal di testa sia proprio come dorme. Per quanto riguarda le coperte, invece, ama i piumoni caldi, il cosiddetto sacco. ✩ 𝐄̀ 𝐟𝐫𝐞𝐝𝐝𝐨𝐥𝐨𝐬𝐨? 𝐒𝐨𝐟𝐟𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐜𝐚𝐥𝐝𝐨? Nonostante la vita trascorsa in Svezia ed abituata a temperature piuttosto rigide, ama le temperature più miti ma di certo non quando dorme. Né troppo caldo, né troppo freddo è il giusto equilibrio, soprattutto in quanto odia le afose notti d'estate in cui non riesce a chiudere occhio. ✩ 𝐅𝐚 𝐫𝐢𝐩𝐨𝐬𝐢𝐧𝐢 𝐩𝐨𝐦𝐞𝐫𝐢𝐝𝐢𝐚𝐧𝐢? Letteralmente impossibile, perlomeno durante la settimana. Ma è anche vero che durante i periodi di festa e nei weekend, capita a volte che ella si appisoli sul divano davanti a qualche serie tv. ✩ 𝐄̀ 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐞 𝐚𝐢 𝐫𝐮𝐦𝐨𝐫𝐢? Decisamente no, e nonostante il suo dormir poco, Agnes ha un sonno talmente profondo che nessuno potrebbe mai schiodarla dall'angolino che s'è ritagliata sotto il piumone. ✩ 𝐒𝐢 𝐞̀ 𝐦𝐚𝐢 𝐬𝐯𝐞𝐠𝐥𝐢𝐚𝐭𝐨 𝐬𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐫𝐞 𝐝𝐨𝐯𝐞 𝐬𝐢 𝐭𝐫𝐨𝐯𝐚𝐬𝐬𝐞? Agnes ha un passato turbolento, è vero, ma nonostante ciò ha sempre posto alcuni limiti e perdere completamente conoscenza e svegliarsi chissà dove era di certo uno di questi. ✩ 𝐌𝐞𝐧𝐭𝐫𝐞 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐞 𝐡𝐚 𝐮𝐧𝐚 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐜𝐡𝐞 𝐜𝐚𝐭𝐭𝐢𝐯𝐚 𝐚𝐛𝐢𝐭𝐮𝐝𝐢𝐧𝐞? Vi è una vera cattiva abitudine che è quella di muoversi troppo, soprattutto quando fa piuttosto caldo, ma tutto sommato nessuna cattiva abitudine da annoverare. ✩ 𝐇𝐚 𝐮𝐧 𝐬𝐨𝐧𝐧𝐨 𝐚𝐠𝐢𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐨 𝐭𝐫𝐚𝐧𝐪𝐮𝐢𝐥𝐥𝐨? In realtà per Agnes dormire è più una necessità che un vero piacere, e quando riesce a prendere sonno il più delle volte ha un sonno tranquillo, tuttavia dipende sempre che cosa ha fatto prima di addormentarsi, e soprattutto che cosa ha mangiato. ✩ 𝐄𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞 𝐮𝐧 𝐭𝐫𝐮𝐜𝐜𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐜𝐮𝐢 𝐟𝐚𝐫𝐥𝐨 𝐚𝐝𝐝𝐨𝐫𝐦𝐞𝐧𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐯𝐞𝐥𝐨𝐜𝐞𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞? Lasciar sì che Morfeo afferri la dolce svedese tra le sue braccia è piuttosto difficile, ma la sua passione per i massaggi è piuttosto rinomata, e quando mani esperte le sciolgono i muscoli sulle spalle, è successo qualche volta che s'addormenti. . . . 𝖍𝖆 𝖒𝖆𝖎 . . . ✩ 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐭𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐮𝐧𝐚 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐭𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐬𝐞𝐬𝐬𝐨? Assolutamente sì, ancora adesso è successo che qualche sua amica divida il letto con lei. Per Agnes è una cosa più che normale. ✩ 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐭𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐞? Non lo ammetterebbe nemmeno sotto tortura, ma sì è capitato, talmente tanti anni fa che è ormai un ricordo sepolto. ✩ 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐭𝐨 𝐢𝐧 𝐚𝐞𝐫𝐞𝐨? Agnes ha vissuto buona parte della sua vita in aereo, diventando quasi una seconda casa per la svedese, per cui è capitato che s'addormentasse anche in volo. ✩ 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐭𝐨 𝐢𝐧 𝐭𝐞𝐧𝐝𝐚? Agnes è troppo perfettina per andare in campeggio, nonostante sia sempre pronta a mettersi in gioco con nuove esperienze. Il dormire in tenda potrebbe essere un suo limite, ma nulla si sa di quello che potrebbe riservarle il futuro. ✩ 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐭𝐨 𝐬𝐨𝐭𝐭𝐨 𝐚𝐥𝐥𝐞 𝐬𝐭𝐞𝐥𝐥𝐞? Con il suo migliore amico del tempo è capitato più di una volta. Le volte che si trovava in Svezia erano l'occasione perfetta per evadere dalla sua reggia dorata. ✩ 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐭𝐨 𝐢𝐧 𝐬𝐞𝐠𝐮𝐢𝐭𝐨 𝐚𝐥 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐮𝐦𝐨 𝐞𝐜𝐜𝐞𝐬𝐬𝐢𝐯𝐨 𝐝𝐢 𝐚𝐥𝐜𝐨𝐥 𝐞/𝐨 𝐝𝐫𝐨𝐠𝐡𝐞? E a chi non è successo? Consumare troppo alcool e ubriacarsi è una di quelle cose che anche gli adolescenti più ubbidienti almeno una volta hanno fatto e Agnes, nonostante sia cresciuta e abbia scoperto quali sono i suoi limiti, ha trascorso diverse notti crollata senza nemmeno cambiarsi. Ma in fatto di droghe non se ne parla, è decisamente intransigente su questo fatto. ✩ 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐭𝐨 𝐧𝐮𝐝𝐨/𝐚? Nella sua collezione di lingerie, il pigiama non viene nemmeno preso in considerazione, e che sia estate o inverno, Agnes dorme nuda, che sia sola oppure accompagnata. ✩ 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐭𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐮𝐧 𝐚𝐧𝐢𝐦𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐨𝐦𝐞𝐬𝐭𝐢𝐜𝐨? Le gatte che ormai fanno parte integrante della sua vita sono anche le sue compagne di letto, soprattutto nelle sere in cui è sola. ✩ 𝐦𝐚𝐧𝐠𝐢𝐚𝐭𝐨 𝐚 𝐥𝐞𝐭𝐭𝐨? Bere il caffè a letto mentre lavora a qualche articolo è il suo modo per rilassarsi. Il letto diventa il suo campo da battaglia, e nonostante odi profondamente le briciole, è un'abitudine che non riesce a togliersi. ✩ 𝐫𝐢𝐟𝐢𝐮𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐟𝐚𝐫𝐞 𝐥'𝐚𝐦𝐨𝐫𝐞 𝐩𝐫𝐞𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐝𝐨 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐫𝐞? Le volte che sono capitate si possono contare sulle dita di una mano, ma non ha mai finto il motivo per cui non volesse, preferendo una discussione ad un silenzio che si sarebbe ripercosso anche la mattina seguente. ✩ 𝐫𝐢𝐟𝐢𝐮𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐚𝐥𝐳𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐝𝐚𝐥 𝐥𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐞 𝐫𝐢𝐦𝐚𝐧𝐝𝐚𝐭𝐨 𝐮𝐧 𝐢𝐦𝐩𝐞𝐠𝐧𝐨 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞? Agnes dorme poco, fatica ad addormentarsi, ma una volta a letto, la mattina non è mai l'ora di alzarsi. Ogni mattina deve fare violenza su stessa pur di alzarsi, ma qualche volta ha fatto proprio quello che si pensa: ha spento la sveglia e si è girata dall'altra parte. ✩ 𝐫𝐢𝐟𝐢𝐮𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐚𝐠𝐧𝐚 𝐢𝐧 𝐬𝐞𝐠𝐮𝐢𝐭𝐨 𝐚𝐝 𝐮𝐧 𝐥𝐢𝐭𝐢𝐠𝐢𝐨? La Löfven qualche volta può risultare rancorosa, per cui è capitato, soprattutto quando crede di essere nel giusto e di avere ragione. Tuttavia, è una ripicca che non le appartiene, tra le lenzuola si può sempre fare pace. ✩ 𝐚𝐜𝐜𝐞𝐭𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐝𝐨𝐫𝐦𝐢𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐮𝐧𝐨/𝐚 𝐬𝐜𝐨𝐧𝐨𝐬𝐜𝐢𝐮𝐭𝐨/𝐚? Assolutamente no. Dormire con qualcuno è un atto intimo per Agnes, e quel minimo di conoscenza ci deve sempre essere.
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→ #𝒓𝒂𝒗𝒆𝒏𝒇𝒊𝒓𝒆𝒓𝒑𝒈 / #𝒇𝒍𝒂𝒔𝒉𝒓𝒐𝒍𝒆 → 𝑱𝒂𝒔𝒐𝒏 & 𝑮𝒊𝒏𝒏𝒚 → 𝑺𝒐𝒎𝒆𝒘𝒉𝒆𝒓𝒆 𝒊𝒏 𝑹𝒂𝒗𝒆𝒏𝒇𝒊𝒓𝒆 — 290519 → “ Questo posto è disgustoso. ”
Jason lo sapeva, ed aveva scelto quel posto disgustoso appositamente per rimanere da solo. Il bisogno di chiudersi in sé stesso era sorto dalla pessima giornata avuta in precedenza; desiderava soltanto sparire, rifugiarsi dove nessuno avrebbe potuto trovarlo. Il luogo in cui era capitato gli sembrava perfetto per questo scopo. Aveva camminato, per ore, senza una meta precisa, e scovato quel punto, che gli aveva subito inspirato molta inquietudine — un'atmosfera che, in qualche modo, rispecchiava il suo stato emotivo. E così aveva scelto di "nascondersi" lì, seduto sull'erba, mentre rifletteva ed osservava l'orizzonte. Fino a quando il suono della voce femminile non era giunto alle sue orecchie, aveva creduto di essere solo. Visibilmente infastidito, si voltò, per comprendere almeno con chi avesse a che fare. Una ragazza, che se ne stava ferma in piedi, a distanza di qualche metro da lui. Era sicuro di non averla mai vista prima di quel momento, ma se anche si fosse trattato di un'amica o conoscente, non sarebbe comunque stato troppo soddisfatto di avere compagnia. In seguito ad un lungo sospiro, si decise a dirle qualcosa, non potendo fare finta di non averla sentita o vista.
« Ed allora che cosa ci fai qui? »
Fu tutto ciò che le chiese, senza troppo interesse, intanto che si girava nuovamente. Anche se non era del tutto concentrato sulla loro conversazione — sempre che potesse definirla tale — si era sforzato di immaginare il tipo di risposta che avrebbe ricevuto di lì a poco. Lei avrebbe potuto dirgli che non erano affari suoi, oppure avrebbe potuto ricambiare la domanda e costringerlo a fornire una risposta più dettagliata. In entrambi i casi, oramai, il suo desiderio di solitudine era stato brutalmente spezzato.
Ginny R. Océane Lagarce
In un passo nemmeno troppo lontano, Ginny aveva avuto a che fare con i blackout che spesso le droghe e chissà quali altre sostanze aveva assunto. Il mondo del modeling non era mai stato semplice, soprattutto per una ragazzina che era poco più di un'adolescenza senza alcuna esperienza. Eppure quei momenti sembravano ormai essere stati messi alle spalle dalla Lagarce, o almeno per buona parte, dunque perché si trovava in quel luogo così angusto, senza una spiegazione apparente? Ma il motivo sembrava essere ciò che era accaduto durante la nebbia tossica, quella sostanza verde che s'era abbattuta sulla città lasciando cicatrici così profonde che difficilmente si sarebbero rimarginate. E gli effetti collaterali di quell'evento ancora così confuso avevano colpito la Lagarce in modo decisamente violento. Portava con sé il risultato del suo scontro con la Maffei, ma il motivo era assolutamente sconosciuto, dunque perché non avventurarsi in quei luoghi in cerca di un qualche indizio? Giunse all'angolo di un quartiere che sembrava portare con sé tutto l'orrore presente al mondo, e la veggente non riuscì nemmeno a trattenere quel commento. Con la fronte lievemente aggrottata, si voltò di scatto in cerca della voce maschile che le aveva risposto, la guardia alzata e gli occhi che avrebbero trafiggere per quanto puntavano in quella direzione. « Ho i miei motivi... Farsi gli affari degli altri è il nuovo per attaccare bottone? »
Jason Schmitz
« E rispondere ad una domanda con un'altra domanda è una nuova moda? Anche io ho i miei buoni motivi per essere qui, se è per questo. Ognuno ha i suoi motivi per essere da qualunque parte. » Le rispose, senza la ben che minima traccia di sarcasmo nel suo tono. Era serio, ed in un momento come quello, il suo atteggiamento propendeva ad essere ancora meno tollerante del solito. Il suo scopo era di rimanere da solo e quella presenza femmina gliela stava impedendo. Ciò nonostante, ormai, tanto valeva continuare a parlare e lasciare tutte le altre questioni ad un momento differente. A tutti gli effetti, lui non aveva idea del perché lei si trovasse lì e non gli interessava neanche più di tanto, tuttavia doveva trovare un modo per chiacchierare e liberarsi di tutti quei pensieri che avrebbe dovuto sbrogliare nelle ore di silenzio, almeno per come si era organizzato fino a prima. Ora, con quell'interruzione, gli sarebbe toccato rimandare tutto ad un'altra volta. « Ma non si finisce per caso in un posto come questo, devi volerci arrivare. Oppure ti sei persa? » Le domandò, stavolta con l'intento di essere incisivo, quasi al limite di infastidirla. Aveva mentito, almeno in minima parte: nemmeno lui conosceva quel luogo, ci era finito in maniera accidentale, ma dubitava che qualcun altro potesse essere finito lì per caso. Sarebbe stata una coincidenza troppo grande, ed anche insolita. Aveva un motivo per volerlo sapere: era stato importunato, dunque doveva vendicarsi, ed usare la sua dote peggiore: la testardaggine.
Ginny R. Océane Lagarce
Era dannatamente difficile prendere in contropiede un tipo come la Lagarce, eppure l'uomo di fronte a lei non aveva alcuna paura a risponderle a tono. Non v'era la minima traccia di sarcasmo in quelle sue iniziali parole, come se fosse lei ad essere in difetto, ritrovandosi così ad aggrottare la fronte in un'espressione assolutamente perplessa. Ginny appariva sicura di sé, spostò il peso da un piede all'altro ed assunse perfino la classica posizione di chi non attendeva altro che litigare: le braccia conserte appena sotto il seno, gli occhi puntati sul suo interlocutore erano solamente i primi segnali. « Con il tuo ragionamento, possiamo anche dire che ognuno di noi ha i suoi motivi per essere al mondo... » Sprezzante e con sguardo più che determinato, Ginny non aveva alcuna idea di lasciarsi intimidire dall'uomo che le stava di fronte. V'era dire però che su una cosa aveva ragione lo sconosciuto, non si finiva in un posto come quello senza una ragione, eppure la sensazione di Ginny non era cambiata, si trovava nel posto giusto. Intorno a lei v'erano edifici fatiscenti, e il grigiore di tutto quel posto stonava quasi con i colori di Ravenfire, ma la visione che aveva avuto era come ambientazione, proprio quell'angolo di strada. « Come ho detto, ho i miei motivi... E no, non mi sono persa. Speravo di trovare qualcosa che stavo cercando. Sembra invece che ti sita per scoppiare una vena proprio qui... Sicuro di stare bene? » Ginny aveva tantissime qualità, ma ve n'era una in cui era davvero un asso, ovvero tormentare il prossimo. Aveva picchiettato con due dita la fronte per indicare il punto in cui la vena dello sconosciuto sembrava dover esplodere da un momento all'altro, ma immancabilmente un sorriso sardonico si ampliò sulle di lei labbra. Aveva probabilmente trovato pane per i suoi denti?
Jason Schmitz
A Jason piaceva fare le domande, finché non trovava qualcuno che aveva voglia di interrogare anche lui, anziché dare le risposte e basta. Si era permesso di oltrepassare un certo limite con lei, ed ora stava pagando il prezzo di aver fatto quella scelta, imbattendosi in qualcuno che aveva la sua stessa voglia di porsi delle domande. Lui non sembrava molto disposto a parlarne ma ormai si trovavano entrambi lì, inutile nascondersi dietro un dito e fingere che quella sua espressione amareggiata non significasse nulla. Aveva, in realtà, un senso fin troppo grande e pregno di tantissime cose. Non sapeva neanche da dove cominciare per parlare di ciò che andava male nella sua vita e che, di conseguenza, lo facevano stare male. Aveva passato giorni e giorni a convincersi che le cose sarebbero migliorate e che si stesse preoccupando per nulla, ma lo scorrere del tempo non gli aveva dato ragione. Al contrario, sebbene i giorni fossero passati, a lui era rimasta l'impressione di essersi fermato in un punto, inesorabile, e che non fosse intenzionato ad andare avanti. E se una persona che non aveva mai visto prima era stata in grado di rendersi conto del suo stato emotivo, allora stava anche peggio di quanto non pensasse. « No, non sto bene, ma non ha importanza. Esiste più qualcuno che stia bene? Ognuno ha i suoi problemi. Il mondo è pieno di seccature, ci sono più problemi che soluzioni. » Ogni singola parola sembrava provenire direttamente dai meandri più oscuri e devastati della sua mente. Ogni singola parola sembrava provenire direttamente dai meandri più oscuri e devastati della sua mente. La vita di Jason sembrava seguire sempre lo stesso ciclo: svariati mesi passavano senza che alcun problema lo ostacolasse, e poi, di punto in bianco, un calo dell'umore lo abbatteva, facendolo sentire come se stesse portando un macigno sul petto sempre con sé. Smetteva di dormire, e passava ogni singola ora della notte a pensare al passato. Era più forte di lui. Avrebbe preferito, di gran lunga, riposare le sue membra stanche anziché dover sopportare quel flusso di pensieri che lo tormentavano. A quanto pare, però, la pace non era contemplata dal suo destino. « Tu sei sicura di stare bene? »
Ginny R. Océane Lagarce
Quando la veggente aveva risposto per le rime all'uomo non aveva idea di aver trovato qualcuno che potesse darle in qualche modo corda, soprattutto non si aspettava qualcuno che rispondesse in modo così chiaro e soprattutto veritiero. Aveva parlato con aria strafottente eppure la risposta che giunse alle sue stesse orecchie era sincera, perché in fondo chi stava realmente bene? Il problema, tuttavia, era il fatto che nessuno amasse confessare una cosa del genere, soprattutto ad una sconosciuta. La Lagarce era giunta in quel luogo angusto senza apparente motivo ma nell'osservare più attentamente la figura maschile che le si parava di fronte, si chiese quale fosse il suo. « Mai stata meglio. » Replicò falsamente la veggente intrecciando le braccia al petto prima di distogliere lo sguardo e guardarsi attorno. I balconi delle case sembravano essere fin troppo sporgenti, la notte sembrava richiamare esseri che Ginny non avrebbe mai e poi mai voluto affrontare. Solo quando sentì un rumore sordo, ella si ritrovò a sciogliere le braccia e dare ancora uno sguardo all'uomo di cui non conosceva nemmeno il nome. « Io... E' meglio che vada. » Non attese oltre, non perse nemmeno un momento prima di voltarsi e tornare verso la sicurezza che le avrebbe sempre dato casa propria.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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La verità è che ho paura, amore.
Chiudo gli occhi e questo mondo mi deconcentra.
Non so neanche da cosa.
C'è della trap in sottofondo, e io ho solo bisogno di mare e di vento.
Sorrido.
È più facile fare amicizia per venti secondi, un sorriso, uno sguardo, la consapevolezza che non hai nulla da perdere, ma anche molto poco da guadagnare.
Tutto si inasprisce col tempo. Il tempo cura dicono. Ma il tempo strappa, dilania, gestisce spesso tutto come un parcheggiatore abusivo.
Il risultato dall'alto è un puzzle di colori e pezzi attaccati un po' a caso, in cui non sai più cosa e di chi, ma il parcheggiatore se n'è andato, e ora sono solo cazzi tuoi.
Questo pianeta non è il tuo lo sai e lo sanno tutti. E cos'è quell'atteggiamento?
Merda è una di quelle mattine, e devo buttare tutto prima che sia troppo tardi.
Il problema è sempre l'avanzo.
Com'è che ti svegli e strascichi.
L'uomo con la valigia rosa ha la testa di lato, e guarda il nulla. È curioso a suo modo. Non c'è un solo rumore che lo distragga.
Lei invece ha la testa bassa, e sul suo telefono controlla che le splendide tende rosa che ha voluto condividere col mondo siano piaciute almeno a qualcuno, ma sappiamo tutti che non è così. E cammina. Cammina fino a che la strada le impedisce di continuare il suo viaggio. Saggia strada. Non stava comunque andando da nessuna parte.
Ma neanche tu.
Ti ho mai raccontato del mio odio per i trolley?
A volte vorrei essere in un film di Tarantino. Questi dialoghi dovrebbero portare a qualcosa di più, qualche morto, qualche dito che vola, e magari una sana scopata.
Tutto è più caldo adesso.
E l'odio per i trolley rimane.
Sai che spesso a seconda di come descrivi le cose puoi avere comunque ragione in un discorso sui grandi misteri della vita.
Il trolley è invasione dello spazio vitale altrui, è la dimostrazione che ce ne sbattiamo degli altri. Ci portiamo dietro queste bestie o bestioline che immancabilmente ci dimentichiamo di addomesticare, e dove potremmo stare in sette, ci state in due. Là dove c'era l'erba ora c'è un trolley. E dove la gente prima camminava, adesso le ruote scricchiolano, sotto il peso di qualcosa che so benissimo vi portate dietro solo perché potete. È tutto così oggi. Ci permettiamo di esagerare solo perché possiamo. Consumiamo tutto e disimpariamo ad essere autosufficienti, e ce ne fottiamo del valore delle cose.
Tutto vero da parte mia. E potrei andare avanti per ore.
Dall'altra parte del ring, abbiamo quel ragazzo col computer che sta lavorando anche in treno.
Il trolley mi chiede? Strana domanda alle sette del mattino.
Perché mai.
Comunque penso che sia dimostrazione che finalmente impariamo a staccarci dai nostri averi. Tempo fa ci tenevamo tutto addosso, zaini giganti e pesanti, ridicoli marsupi e fastidiose tracolle. Ha visto? Un aggettivo per ogni singolo oggetto. Rende tutto meno impersonale. Non divaghiamo.
Adesso abbiamo imparato il valore del nostro corpo, a non appesantirci con quello che non sia essenziale, a non definirci con quello che possediamo, ma a tirare fuori solo noi stessi.
E ad essere anche, mi permetta di dirlo, un filo più eleganti.
Guarda l'ora sul suo orologio da taschino d'oro.
Scusi ma adesso devo andare.
Accende i razzi e se ne va.
Io tanto mi dico che i jetpack ormai li vendono anche da decathlon ed è inutile che tu faccia il figo.
Me ne convinco parecchio.
Ma tanto lui è già lontano.
Sti razzi.
Non ci interessa.
Anche se si vede benissimo che la seconda teoria è più debole perché non ci credo.
Ci ho messo un personaggio antipatico. Odia i marsupi. Dalla mia dico che gli ho dato un jetpack. Solo i fighi ce l'hanno. Ho cercato di equilibrare. Ci ho provato dai.
Non mi rompere il cazzo.
Volevo scrivere il razzo ma l'ho già usato per sti razzi. Che comunque a me fa ridere ancora.
Ma non siamo qua a far ridere nessuno.
La teoria è questa. Basta prendersi un attimo, trovare un significato credibile, e gestirlo come la pasta della pizza. Lo giri lo tiri lo stiri lo lanci e la gente fa solo oooooooooh.
Poi anche se la pizza è fatta con la merda la gente dirà sempre ooooooh mentre la prepari.
Poi il tempo per lamentarsi lo si trova dopo senza problemi. Anche se ormai il gusto è roba di lusso.
Il bello è che rompiamo il cazzo agli americani per l'ananas sulla pizza, ma poi noi abbiamo comunque la pizza con le pere, e la rossini con la maionese. E tutti buonissima! Ma se te l'avesse fatta Jack avresti detto il solito americano che mette la maionese sulla pizza.
E nella carbonara la cipolla non ci va.
Che parlando con la cuoca di un ristorante famosissimo a Roma mi fa, IOCIAAAAAMETTOMASOLOMMMPEZZETTOCHEPPOIOOOTORGOCARTRIMENTIMECAGANERCAZZO.
Che vuol dire semplicemente caro romano che tu la cipolla nella carbonara te la sei mangiata almeno una volta e ti è pure piaciuta.
Si ma la ricetta! È importante mantenere la tradizione. Sto cazzo. Magnati la carta.
E questo lo offre il cavaliere nero.
Si tollerano un sacco di cose ai giorni nostri, si viene calpestati, umiliati, ci si riduce a litigare tra poveracci. Sta povera signora tutte le mattine è sul treno alle sette e non so perché. Forse è dio, che si annoiava ed è sceso qua, rimasto bloccato, problemi con la crocifissione dicono, abbiamo finito i chiodi, ci rubate anche i chiodi #primaichiodiitaliani sicuramente capo.
Quindi magari è rimasto bloccato quaggiù, e tutte le mattine alle sette prende sto treno ci osserva, stufo delle nostre lamentele senza mira.
Si tollerano un sacco di cose ai giorni nostri.
Tolleriamo e scleriamo a caso. Ci prendiamo due o tre punti fissi per non confonderci troppo nella massa, poi vi ci si buttiamo dentro e neanche ci tappiamo più il naso.
Abbiamo la coerenza di un volo di una cimice, sbattiamo anche contro qualche muro perché abbiamo raggiunto un limite. Per il resto possiamo sorridere se ci fottono, e piangere perché Bubi la strega della cisalpina è stata cancellata da netflix.
Avete mai pensato a quanti video porno ci sono? Voglio esagerare e dico ce ne saranno almeno chessò, la sparo grossa non giudicatemi, almeno diciamo, dai mi butto, almeno cento?
Com'è che non conosco nessuno che ne abbia fatto uno?
Dio si è svegliato.
Io mi spavento spesso per molto meno.
Dicevano dio è morto, ma in realtà è solo a farsi i cazzi suoi.
Ho provato a pregare dio, ma lui non mi ascolta.
Non è vero mi dice l'uomo in nero.
Guarda.
Ultimo accesso ieri.
Questo si sveglia tutte i santi giorni e prende il treno alle sette.
Voi pregate tutti la mattina presto o la sera, non è che uno si sveglia e ha voglia di leggere tutte le vostre cagature di cazzo.
Non è vero che dio non ci ascolta.
Ha semplicemente disabilitato le notifiche.
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l’Attesa
Il tempo passa sopra tutto e tutti, lasciandoci addosso, come ricordo, evidenti segni...se invece, provassimo a fare un cazzo, a non voler fare niente e mettersi ad aspettare, manterrei inalterati tutti i miei pensieri, stabili e protetti dall'illusione. Sensi, colpe e rimpianti fluttuerebbero, quasi congelati, in bilico ai confini tra la vita reale ma lenta e banalmente rugginosa, tristemente antitesi a quella che vorrei, da tenere in bella vista, purtroppo sotto vetro ma comunque appesa a qualunque speranza, anche dondolante. Mi vedo quindi come sono le lancette, impazienti che...non vedono l'ora, di muoversi ad un preciso d’ordine istante...e, pur di cambiare qualcosa di esistente...si sposterebbero anche di poco all'indietro, in senso contrario, col rischio di annullare un futuro, magari già preconfezionato ma sempre desiderio e lasciarsi così liberamente andare alle pure dinamiche reazioni causate da stimoli istintivi. Non voler decidere trasforma tutto in un passato prossimo di un futuro instabile e permette di usare il vero condizionale sulla vita che avrà da venire. Mi sento come un immobile, un volume ingombrante, talvolta e traballante a mezz'aria, in sospensione stonato contro il cielo azzurro. Un grosso volatile sgraziato che poi alla fine cade giù sfinito dalla fatica di sbattere ossessivamente le ali senza rendersene conto..senza muoversi nemmeno di un centimetro o al massimo lo potresti vedere sussultare fra un po' in avanti e un po' all’indietro. E’ come stare su un'altalena, seduto sulla tavoletta scarna, che ti porta, ti rapisce e trascina come immancabilmente fa l'inconscio. Situazioni di fantasia, surreali derivate e continuative della realtà. Quel futuro sempre immaginato, detto e mai sottoscritto, quel va e vieni fra l'ideale e il da farsi imminente. Dondolarsi, cullarsi sarà l’incipit del beato vivere, sorretto, mantenuto in vita solo dal rumore delle corde scricchiolanti, che si tendono, par ti mollano ma non si allentano. Intrecciate senza una ragione precisa, sono fibre più che fili, talmente angosciosi da diventare eccitante ed invitante al solo pensiero di lasciarsi andare all’ignoto, senza voler davvero sapere se possiamo tornare o ripartire. Non sarà poi certo l'ombra che pare raggiungermi e subito si allontana dal suolo, dalla terra, dalla proiezione di questo cambiamento che modella incessantemente, attimo dopo attimo la mia dimensionalità invisibile agli occhi, il mio essere sotto questa figura spesso ambigua, profondamente retorica ed ironica. Una variazione interiore profonda, la mia essenza che sgorga di nuovo su, come acqua fresca in superficie e per pura naturalità è schiava di quella forza che tutto respinge dal basso verso l’alto il suo peso fardello...del mal di vivere. E trascina con se', pezzi di me ed ogni incrostazione remota nel suo percorso verso la luce. Lasciatemi andare, non badate quindi alle metamorfosi soggettive e laiche che mi rappresentano. La vera figura della mia anima che si rigenera non ha aspettative. Non ama immaginarsi sempre dinamica, non ha un movimento dettato dalle leggi della fisica, ne' reazioni spontanee ad azioni sempre tese a modificare uno stato di equilibrio, anche immaginario...verso un qualcosa che va, che andrà via via esaurendosi fino farmi insindacabilmente distrarre dalla voglia di guardarmi dentro, mentre sto lì, mentre sono e sto fermo lì, senza però mai scappare e/o fuggire, immobile nel mio congenito silenzio..che mi aspetto.
dEnnY
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Parliamo perché è bello (anche se non abbiamo nulla da dirci). Piccolo discorso sull’incomunicabilità: da Pirandello a Kafka, da Shakespeare a Wislawa Symborska
“Come sono sciocchi” scrive Pirandello, “tutti coloro che dichiarano la vita un mistero, infelici che vogliono con la ragione spiegarsi quello che con la ragione non si spiega!”. Domande e spiegazioni, messaggi, simboli, significati – di questo si compone il tessuto della rete che ci unisce in quanto esseri umani. La parola come simbolo, spiega Susanne Langer, rappresenta la linea di confine tra Umano e Animale: di qua l’essere razionale e parlante, di là la bestia. Tuttavia, sempre secondo la Langer, il linguaggio simbolico con cui ci esprimiamo è puro artificio, e come tale confinato nella sua limitatezza. Se le parole che usiamo per comunicare sono condannate a restare a un’ineluttabile anche quando minima distanza dall’oggetto che vogliono significare, perché ci ostiniamo a parlarci?
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L’etimologia stessa della parola discorso è legata a un senso confusione: il latino dis-cursus significa “correre di qua e di là”, “scorrere”, e infine “trascorrere con la parola da una cosa all’altra”. Ecco allora che la terminologia del parlare ci suggerisce – suggerisce perché non può realmente dire – che comunicare in maniera chiara non è possibile. Che un’adesione completa tra significato e significante, tra essere ed esprimere quello che si è, semplicemente non è raggiungibile. E il poco che abbiamo a disposizione sono compromessi e approssimazioni.
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Il linguista Roman Jakobson ha schematizzato il sistema della comunicazione verbale identificandone sei aspetti. Quando la comunicazione avviene sono sempre presenti sei fattori: il locutore, il messaggio che viene comunicato, il destinatario che lo riceve, il contesto in cui i due si trovano, un codice comune agli interlocutori attraverso cui comunicare (la lingua), e una connessione che è condizione necessaria affinché locutore e destinatario siano disposti ad esprimersi e ascoltare. Questo modello, qui semplificato, serve a dare appena un’idea di quanto sia complesso il sistema su cui si basa anche la comunicazione più semplice. L’interazione tra soggetto parlante e ricevente non può prescindere da quello che essi sono e dal modo in cui pensano. Non può prescindere quindi da tutta la loro storia precedente. Nel momento in cui avviene il contatto, in cui cerchiamo di trasferire il contenuto del nostro pensiero in un sistema di pensiero altrui, le inevitabili differenze tra i due soggetti creano nel mezzo come una nebbia, impediscono una comunicazione trasparente. Non si può mostrare il pensiero, e così siamo condannati al sistema di Jakobson: io, te, e nel mezzo la solita distanza.
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La poetessa e premio Nobel per la Letteratura (1996) Wislawa Symborska esprime con arguzia l’eterno conflitto tra dire e voler dire nella sua poesia Sulla Torre di Babele. Lo esprime efficacemente perché lo mostra senza parlarne. Con delicatezza, si limita a indicarlo al lettore. Nel testo due amanti, o quelli che presumiamo tali, provano a parlarsi e immancabilmente non ci riescono. “- Che ora è? – Sì, sono felice” recita il primo verso. I due continuano a parlare in quella che in definitiva è la maniera più onesta possibile: parlano di due cose diverse. Serenamente, rinunciano a trovare il tanto agognato punto di contatto – e finalmente si ritrovano vicini. “Non so che ora sia” termina la poesia “e non lo voglio sapere”. Nei versi della Szyborska le parole non significano né vogliono significare: semplicemente sono. Si possono allora, e finalmente, apprezzare in tutta la loro bellezza. E come suonano dolci una volta alleggerite dal peso del senso. Il titolo stesso della poesia merita una riflessione: l’immagine è presa in prestito – forse meglio rubata – dal libro della Genesi, ma in realtà ha radici molto più lontane. La Torre di Babele, in tutte le sue versioni, rappresenta il punto nel tempo in cui capirsi è diventato impossibile, la creazione di quel piccolo vuoto che c’è tra tutti gli uomini, eternamente separati tra loro dall’invenzione della lingua.
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E ancora si ritrova in Kafka la stessa nozione. Nella celebre conclusione de Il Processo: “la logica è incrollabile, ma non resiste all’uomo che vuole vivere”. Il protagonista cerca di spiegarsi durante tutto il romanzo senza mai riuscirci e il lettore percepisce tangibile l’incomunicabilità della sua innocenza – e la frustrazione che questa genera. Il linguaggio è questione di vita o di morte anche nell’outsider di Albert Camus, ma in questo caso secondo l’autore “l’eroe del libro è condannato perché si rifiuta di prendere parte al gioco”. Meursault muore perché si rifiuta di mentire e di conseguenza, spesso, di parlare. Simboli ai simboli e reale al reale.
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“She speaks,” dice Romeo della sua Giulietta sotto il noto balcone “and yet she says nothing”. Parla, Giulietta, eppure non dice niente. L’eloquenza è tutta nei suoi occhi, che Shakespeare fa stelle. Nello spazio tra il balcone e la strada stanno parole e fraintendimenti. Al contrario degli amanti della poesia della Szymborska, Michele e Lisa ne Gli Indifferenti di Moravia parlano la stessa lingua – il lettore segue un dialogo che ha perfettamente senso, non fosse per i pensieri e le intenzioni dei due che incastrati tra le battute non potrebbero essere più distanti. Tra le pagine del romanzo che raccontano il loro primo colloquio si coglie la quintessenza dell’incomunicabilità.
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Quando la comunicazione si presta al linguaggio amoroso le complicazioni aumentano. Invece di oggetti o idee si pretende ora che le parole esprimano sentimenti. “Una parola dopo l’altra” scrive Barthes in Frammenti di Un Discorso Amoroso, “mi logoro a dire in modo diverso la stessa cosa della mia Immagine, a dire impropriamente quello che è proprio del mio desiderio”. Lo studioso parla di “limite estremo del linguaggio”: parlare si può, ma esprimersi con le parole è possibile solo fino a un certo punto. E così è comune agli amanti la sensazione di insuccesso che viene dal non riuscire a dire. “Ti amo, ma non riuscirò mai a spiegarti quanto”. Le parole non sono un mezzo adeguato né sufficiente.
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È possibile che sia necessario accettare una realtà diversa: che, platonicamente, significato e significante, parola e oggetto, realtà e linguaggio semplicemente appartengano a due Mondi diversi. L’uno immagine dell’altro, ma mai coincidenti. È forse il caso di darla vinta a Pirandello, e che i simboli restino tali. Che la realtà, al di sotto e al di sopra del simbolo, resti inespressa, aleggiante, onnipresente. Come nei ritmi della musica africana: nel modello occidentale a cui siamo abituati e in cui veniamo educati, chi suona uno strumento lo sa, suonare senza contare non sembra possibile. Niente musica senza numeri. Eppure c’è: basta guardare un po’ più in là e in un modello uguale e opposto, quello della musica africana appunto, per trovare musicisti che alla domanda “questo come si conta?” ti guardano storto. Il ritmo è ritmo, e coi numeri non ha nulla a che fare. Una volta che si accetta questa idea il contrario suona decisamente assurdo. C’è, esiste ed è possibile un universo in cui si lasciano i simboli ai simboli e la musica alla musica.
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Ma è possibile fare lo stesso con realtà e parole? Si può accettare davvero la parola come vuoto simbolo? Se si, allora perché continuare a parlare, scrivere, comunicare? Qual è il punto? E come non sfociare dopo queste riflessioni in un facile e francamente piuttosto scontato nichilismo?
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La risposta è semplice: ci parliamo perché è bello. Perché cogliamo la bellezza anche nella frustrazione, e perché in una società in cui sembriamo essere ossessionati dall’efficacia e terrorizzati dal fallimento è un modo per ammettere che va bene non riuscire. Come nel mito di Sisifo continuiamo a spingere la nostra roccia sul pendio di una montagna, a sperare ingenuamente, con tutta l’innocente purezza che abbiamo, che alla fine ce la faremo. Alla fine capirai, saprai quello che sto cercando di dirti e io capirò quello che dici tu – alla fine ci incontreremo. Il masso però continua a rotolare, caderci addosso, schiacciarci. Ancora una volta mi hai frainteso, ancora una volta non so. Il peso della pietra toglie il respiro. Puntualmente ci rialziamo e continuiamo: sappiamo che sotto il peso c’è solo la morte. Ricominciamo a spingere il sasso, con tutta la fatica che comporta. Ogni volta un po’ più consapevoli, eppure inarrestabili. Non c’è nessun motivo in fondo per cui non dovrebbe essere così.
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Si dovrebbe anzi parlare sempre, dare la forma più bella possibile al pensiero e fare uso abbondante e sensibile di questo strano e artificiale sistema di simboli, la parola, che è tutto ciò che abbiamo a disposizione. Anche se parlare significa mentire, anche se – e anzi proprio perché – afferrare il reale non è possibile. Anche se nessuno capirà mai. Si dovrebbe, anche, rispettare ogni tipo di linguaggio, e prestare attenzione alle parole di cui di compongono i nostri dialoghi, prendersi del tempo per sceglierle con cura e poi divertirsi mentre si corre di qua e di là. Mentre ci si corre incontro senza raggiungersi mai. Si dovrebbe imparare a riconoscere e amare i limiti del nostro modo di esprimerci. Anche imparare a stare zitti, quando serve, ad attendere, a guardarci, ascoltarci, interpretarci meglio. E poi perderci al confine, immersi nella nebbia. Arrendersi davanti all’idea che tu non potrai mai conoscere il contenuto del mio pensiero e imparare ad apprezzare l’interpretazione che ne dai anziché combatterla. Abbracciare la frustrazione. Allora nell’inevitabile distanza tra me e te non ci sarà più vuoto ma soltanto meraviglia.
Matilde Moro
*In copertina: Piero della Francesca, “Doppio ritratto dei duchi di Urbino”, 1465-1472
L'articolo Parliamo perché è bello (anche se non abbiamo nulla da dirci). Piccolo discorso sull’incomunicabilità: da Pirandello a Kafka, da Shakespeare a Wislawa Symborska proviene da Pangea.
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IL VESUVIO VISTO DAL LUNGOMARE DELLA CITTA’ DI NAPOLI
CARATTERISTICHE. Il vulcano ha un altezza di circa 1280 metri. Si tratta di un altezza variabile nel corso degli anni, proprio a causa dei mutamenti dovuti alle eruzioni che si susseguono nel tempo. Ha un diametro alla base di circa 20 km, ed ha una caldera, ovvero la zona del cono caratterizzata da una forma cosiddetta a recinto. Il Vesuvio si trova nella zona sud orientale della città di napoli. Il vulcano è considerato attualmente un vulcano attivo, anche se con caratteristiche molto diverse da quello siciliano dell’Etna. Nella sua lunga storia però non è sempre stato un vulcano attivo. Nel passato, prima della grande eruzione che distrusse la città di Pompei, le fonti storiche ed iconografiche, lo rappresentavano come una vera e propria montagna coperta di vegetazione È coltivato a vigneto. Se vi recate presso il museo archeologico della città di Napoli, potrete vedere questa raffigurazione in un famoso mosaico della città di Pompei prima della sua distruzione. Nella sua storia passata, per giungere fino a quella più recente, Il Vesuvio ha eruttato numerose volte a partire proprio dalla famosa eruzione che sconvolse la città di Pompei. Le più recenti, sono quelle del 1906, è quella del 1944. La prima distrusse completamente Ottaviano, con elevato numero di morti, mentre invece quella nel 1944, causo la morte ricerca una trentina di persone. La salita verso il cono del Vesuvio è una attività praticata da molto tempo, e viene descritta dai tanti viaggiatori che nei secoli si sono avvicendati per esplorane la sommità. Ciò che comunque colpisce, e che il Vesuvio, apparentemente immobile ha in realtà cambiato nel corso del tempo la sua conformazione, soprattutto nella parte sommitale, proprio a causa delle frequenti eruzioni. Viene considerato un tipo di Vulcano esplosivo, rispetto al Etna che invece di tipo effusivo. La differenza sostanziale sta nel fatto che le eruzioni nel primo si verificano ad un intervallo di tempo non sempre regolari, con conseguenze però spesso catastrofiche, ed associati anche a forti terremoti.
LA BOCCA INTERNA DEL VULCANO
Il secondo tipo invece prevede una attività vulcanica costante e continua, anche molto importanti per dimensioni, ma senza fenomeni particolarmente violenti essenza conseguenze devastanti Per quanto riguarda i terremoti conseguenti alle eruzioni stessa. ll vulcano è inserito dal 1995 all’interno di un’area a parco, che prende proprio il nome di Parco Nazionale del Vesuvio, creata proprio a tutela del vulcano stesso e del suo territorio, ed in ragione dell’ interesse dal punto di vista storico geologico e biologico di questa area, certamente unica nel suo genere.
LA STRADA ASFALTATA CHE PORTA VERSO IL VESUVIO
GOOGLE MAPS. Di seguito troverete la mappa interattiva di GOOGLE MAPS che vi consentirà di raggiungere la vostra meta utilizzando il vostro dispositivo come un navigatore GPS ovunque vi troviate. Per attivare il navigatore cliccare sulla freccia blu presente sulla mappa.
IL METEO. Di seguito troverete un box meteo con le previsioni del tempo riferito alla zona su base settimanale. Questo vi consentirà di organizzare al meglio la vostro escursione con le condizioni metereologiche migliori.
IL PARGHEGGIO. Non è possibile raggiungere il monte del Vesuvio con i veicoli a motore. Infatti, durante la vostra ascesa lungo una delle strade che porte verso il cono del vulcano verrete immancabilmente fermati un veicolo delle forze dell’ordine.
L’INCROCIO DOVE SI FERMANO LE AUTO E INIZIA IL PARCHEGGIO
Sarete quindi obbligati a lasciare la vostra autovettura direttamente in una strada laterale nelle aree delimitate una linea blu come avviene normalmente nei parcheggi a pagamento delle città. Non troverete una vera e propria area di parcheggio tipo spiazzo, ma dovete mettere i vostri veicoli in fila indiana.
UNA DELLE STRADE DI ACCESSO AL VESUVIO DEDICATA AL PARCHEGGIO
Questa precisazione potrebbe sembrare inutile, ma in realtà bisogna prendere in considerazione che la fila indiana comporta un allontanamento dal punto in cui si comincia a salire a piedi per raggiungere il cono del vulcano. Per tale ragione, se volete evitare di fare anche molta strada a piedi lasciate il vostro veicolo, il consiglio è sempre quello di giungere presso il vulcano nelle prime ore del mattino, o eventualmente anche nel pomeriggio tardi, quando gli altri visitatori cominciano ad andare via. Può capitare infatti che se si arriva molto tardi, potreste lasciare la vostra vettura anche ben oltre un km di distanza rispetto al punto in cui si inizia a salire a piedi. Per quanto riguarda invece i motocicli, o comunque i veicoli a motore a due ruote, chiedendo alle forze dell’ordine che sbarrano il passo, potrete salire verso il vulcano percorrendo alcuni km sulla sulla strada asfaltata, fino a giungere al punto in cui non si potrà più assolutamente salire con nessun veicolo, e dove inizia il vero e proprio parco del vulcano.
IL PARCHEGGIO ALTO. Per i veicoli autorizzati a raggingere la parte alta del Vesuvio, è presente un’area di parcheggio in un’area sterrata, prima dell’ingresso al percorso a piedi. Si tratta però di accessi consentiti a pochi fortunati o a veicoli di soccorso o delle Forze dell’Ordine e a coloro che lavorano nel Parco.
IL SERVIZIO NAVETTA. Come già spiegato, una volta lasciata la vostra autovettura o il vostro veicolo a motore al parcheggio, dovrete necessariamente raggiungere la parte iniziale del Parco del vesuvio, o a piedi, o usufruendo anche di un servizio navetta messo a disposizione da alcuni privati. In pratica, per percorre gli ultimi chilometri di asfalto interdetti al pubblico a bordo di questi mezzi ovviamente si tratta di un servizio a pagamento, ma l’importo richiesto è basso per il vantaggio è quello di non dover fare un bel pezzo di strada a piedi. Servizio navetta è continuo, adesso trovato in maniera tale da potervi accompagnare sia all’andata che al ritorno. Siete chiaramente liberi scegliere utilizzare il servizio navetta sia per l’andata che per il ritorno o anche soltanto per una delle due tratte.
LA TARGA CHE INDICA L’INIZIO DEL PERCORSO CHE PORTA ALLA BOCCA DEL VESUVIO
LE BICICLETTE. Durante la vostra salita in macchina verso il vulcano, noterete la presenza di numerosi ciclisti. La strada è bella ed il panorama magnifico. Si puo arrivare fino alla seconda area di parcheggio con la bicicletta, ma non salieri per i sentieri che portano fino alla parte sommitale del cono. Qui si devono usare i piedi.
LA BIGLIETTERIA.
Accesso al vulcano non è gratuito, è necessario pagare un biglietto. Bisogna precisare è l’importo che viene richiesto, certamente non è ecomico per una famiglia di quattro persone, che potrebbe spendere anche una bella cifra per godere di questa visita. Sono soldi ben spesi, perché avrete la possibilità si può visitare un luogo unico, e salire uno dei vulcani più famosi del mondo.
La biglietteria si trova non dove è presente la zona parcheggio, ma nella parte intermedia parcheggio stesso l’inizio del Parco del Vesuvio . Come si può vedere dalle immagini mentre camminate a piedi o salite con una delle navette di cui sopra, notere sulla sinistra una struttura rettangolare legno e metallo, a cui interno troverete gli appositi sportelli per poter effettuare il pagamento del biglietto. Ricordate che potete pagare sia in contanti e con il bancomat.
Per quanto riguarda i sistemi di pagamento elettronici, potrebbero però esserci dei problemi, in quanto non sempre la linea telefonica funzione come dovrebbe e potreste quindi essere costretti ad aspettare anche molto tempo prima che questa connessione venga ripristinata. Ricordate quindi sempre di portare con voi del denaro contante, in maniera tale da evitare perdite di tempo, e chiaramente si traducono in una minor permanenza sul vulcano, di dover effettuare tale escursione con la tranquillità che merita. Una volta acquistato il biglietto, conservatelo con cura, perché dovrà essere esibito all’ingresso del parco del Vesuvio.
A
ABBIGLIAMENTO. Per quanto riguarda l’abbigliamento, bisogna seguire stesse regole quando si sale in montagna. Il Vesuvio arriva ad un’altezza massima di circa 1.280 metri Per questa ragione, quindi portare con voi qualcosa che vi consenta di vestirvi con la tecnica a cipolla in maniera tale da poter aggiungere o togliere capi d’abbigliamento, in base alle variazioni del clima. Nella stagione invernale, nella parte sommitale del Vesuvio a fare veramente freddo, così come durante quella estiva, il caldo può essere veramente intenso.
LE CALZATURE. Per quanto riguarda le scarpe da indossare, anche in questo caso la regola da seguire è quella della escursione in montagna. Non si tratta di una arrampicata in alta montagna, ma è bene indossare comunque un buon paio di scarpe da ginnastica o delle scarpe da trekking, senza ovviamente esagerare con calzature particolarmente tecniche. Il consiglio è quello di evitare scarpe aperte sandali ciabatte e tutto ciò, che non vi protegga i piedi adeguatamente. La ragione di ciò sta soprattutto per quanto riguarda l’ultima parte del percorso, circa un chilometro e 700 metri, con un fondo di cenere vulcanica e piccole pietre. Questi riescono ad entrare con facilità nelle scarpe aperte, ed il rischio è quello di trovarvi alla fine della camminata con i piedi scorticati. Inoltre eviterete così anche pericolose scivolate con scarpe che non hanno la giusta aderenza.
UNA IMMAGINE DALL’ALTO DEL VESUVIO PRESENTE NELLA BIGLIETTERIA
PROTEZIONE DAL SOLE – LA CREMA SOLARE. L’escursione al Vesuvio viene effettuata in un ambiente totalmente privo di alberi. Non che questi non ci siano, ma l’accesso la bosco è interdetto ai visitatori. Per questo motivo vi troverete a camminare in un ambiente costantemente illuminato dal sole, sempre che ovviamente il cielo non sia coperto. Per questo motivo, sia d’inverno che d’estate è molto importante che vi proteggiate dal sole, applicando sulle parti scoperte del corpo una crema solare con filtro. Il motivo è molto semplice. Come anticipato, l’escursione non è breve, e pertanto potreste trascorrere molte ore sotto un forte sole. Anche nel caso in cui il tempo fosse nuvoloso coperto, Ricordatevi sempre che comunque il sole fa abbronzare.
OCCHIALI DA SOLE . E’ molto importante portare con voi gli occhiali da sole, sia d’inverno che d’estate. La ragione è dovuta alla forte insolazione, anche nelle giornate coperte. La vosta escursione è tutta allo scoperto, e non ci sono posti dove proteggervi. Bisogna poi fare i conti anche con il vento che tende ad asciugare rapidamente gli occhi, per cui non dimenticateli. E questo ovviamente vale anche per i piu piccoli.
COPRICAPO. Per proteggervi dal sole ed anche dal vento, potete portare con voi anche un copricapo. Nel periodo invernale, vi proteggerà anche dal vento.
I BAMBINI. Come si può facilmente immaginare, il vulcano esercita sui bambini, anche su quelli più piccoli, un fascino irresistibile proprio per la sua particolarità. Bisogna però ricordarsi, che la camminata, soprattutto nella parte non asfaltata, ovvero quella che va dall’ingresso del parco del vesuvio, fino alla sua sommità, è piuttosto impegnativa per chi ha “le gambe corte”. Per questo motivo ricordatevi che potreste essere obbligati a dover prendere in braccio i bambini. Il consiglio e quindi quello di effettuare ogni tanto delle soste per farli riposare, anche con la scusa di fargli raccogliere qualche pezzetto di lava, o di fargli ammirare il bellissimo panorama. Lasciateli liberi di muoversi, ma vigilate sempre con la massima attenzione.
IL CONO DEL VULCANO. Il naturale “epilogo” delle ascesa sul Vesuvio è quella di potersi affacciare sul ciglio della sua enorme bocca. Ovviamente del basso non ci può rendere conto di quale dimensioni possa avere, ma una volta raggiunti i 1.200 metri circa, vedrete uno spettacolo unico. Ciò che colpisce è l’altezza delle pareti verticali del cono, e la sua profondità. Cercate i punti migliori dove affacciarvi. Non sarà difficile trovarli. E’ recintato solo nella parte visitabile per i “normali” escursionisti. Non vi arrampicate sulle palizzate di legno, e se comunque volete farlo per fare qualche bello “scatto”, fate comunque molta attezione. Non oltrepassate mai la recizione. Il rischio è quello di fare un bel salto nel vuoto.
D
LE FUMAROLE. Una volta arrivati sulla sommità del vulcano, noterete la presenza delle c.d. “fumarole”. Si tratta di gas di risalita che provengono dalle profondita della terra. La loro presenza evidenzia con chiarezza l’attività vulcanica costante del Vesuvio, e per tale motivo sono un indice importate per capire che cosa accade al suo interno. Gli studiosi le considerano campanelli d’allarme per comprendere le modificazioni dell’attività del vulcano nel corso del tempo. L’analisi della composizione dei fumi, può far capire se il Vesuvio abbia o meno iniziato un ciclo che lo porterà ad una eruzione. Per gli escurzionisti invece sono molto belle.
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LE COLATE DI LAVA. Un caratteritica tipica di ogni vulcano è presenze delle colate di lava, e sul vesuvio sono ben visibili, anche se in maniera più “discreta”, rispetto a grandi vulcani come l’Etna. Durante il vostro cammino non solo le incontrerete, ma senza saperlo di ci camminerete sopra. Di seguito alcune immagini delle colate.
IL PANORAMA. Escursione sul Vesuvio è veramente suggestiva per due ordini di motivi. Il primo è che vi trovate comunque sulle pendici e sulla bocca di un vulcano, il secondo perché godrete di un panorama veramente unico nel suo genere. Guardando verso il mare, e lasciandovi quindi il cono del vulcano alle spalle, potete vedere alla vostra destra la città di Napoli, al centro sotto di voi altre località limitrofe, tra cui la famosa Pompei e i suoi scavi nonché la città moderna, è sulla sinistra la stupenda quanto unica Costiera amalfitana. Di fronte a voi Inoltre potete osservare, anche nelle giornate con una visuale più ridotta la sagoma dell’isola di Capri. In pochi posti al mondo avrete la possibilità di vedere tante meraviglie tutte insieme.
LA CITTA’ DI NAPOLI VISTA DAL SENTIERO CHE COSTEGGIA IL VESUVIO
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I SENTIERI. La parte più alta del Vesuvio si raggiunge percorrendo una serie di sentieri sterrati, composti prevalentemente da cenere vulcanica. Hanno un andamento univoco, nel senso che il percorso da seguire è uno soltanto per raggiungere la sommità, dove si trova la bocca del vulcano. In realtà quindi non bisognerebbe parlare di sentieri, ma bensì di un unico percorso da effettuare sia all’andata che al ritorno. Ricordatevi che questo sentiero termina in prossimità di un rifugio all’altezza di circa 1200 metri, dove non è più possibile andare avanti, a meno che non abbiate un’autorizzazione speciale. Infatti lì, come vedrete nella foto, è presente un cartello che proibisce l’accesso al sentiero successivo, salvo per coloro che hanno particolari tipi di autorizzazione. Per questo motivo, a meno che siate tra i pochi fortunati che possono accedere a questa sentiero, ulteriore, non potete altro che tornare indietro sui vostri passi per ripercorrere lo stesso identico percorso, che avete fatto all’andata. Ricordatevi che il fondo è composto di cenere vulcanica, non di certo pericolosa, ma scivolosa in alcuni punti, per questo motivo, quando scendete, soprattutto nei punti più ripidi, fate attenzione a dove mettete i piedi. In questo modo eviterete qualche spiacevole ed imprevista caduta. Una raccomandazione è quella di fare attenzione ai bambini. Il percorso è tutto recintato con palizzate di legno, ma i più piccoli potrebbero passarci attraverso.
UNA DELLE SCALINATE PRESENTI SUL SENTIERO SULLA BOCCA DEL VULCANO
IL LIMITE DEL SENTIERO DA POTER PERCORRE SENZA AUTORIZZAZIONI SPECIALI
ESCURSIONISTI CHE OSSERVANO LA BOCCA DEL VULCANO DAL SENTIERO ALTO
DOVE MANGIARE. Per poter pranzare, ed eventualmente cenare, potete seguire le seguenti indicazioni. Trattandosi di una escursione il sistema più semplice ed economico per mangiare è quello di portare con voi dei panini ed eventualmente delle bibite, insomma qualcosa portato da casa. Se invece volete viaggiare leggeri, potete acquistare il cibo direttamente nei vari punti di ristoro presenti durante il percorso Ovviamente non parliamo in questo caso di ristoranti o trattorie, ma di bar dove troverete qualcosa di leggero ed in genere già confezionato. Qui potete acquistare bevande di ogni genere a prezzi ragionevoli. Il consiglio è quello di fermarvi a mangiare qualcosa all’ultimo rifugio che si trova nella parte più alta del Vesuvio dove termina il percorso a piedi. Sono presenti tavoli e panchine, dove potete mangiare qualcosa acquistato direttamente presso il locale bar. Il consiglio di fermarvi qui, soprattutto in ragione della visuale fantastica e del meraviglioso panorama che si vede da questo punto di osservazione privilegiato.
I RIFUGI. Durante l’ascesa sul Vesuvio incontrete alcuni piccoli “rifugi”, dove poter sostare e riposarvi e fare piccoli acquisti, nonchè mangiare. Non si tratta di strutture come quelle che si trovano in montangna, ma sono comunque molto comodi in caso di necessità.
Uno dei più suggestivi, grazie alla sua magnifica posizione, e quello più in alto, e che si trova al termine del sentiero accessibile ai normali escursionisti. Qui il panorama è unico.
IL RIFUGIO PIU’ IN ALTO ALLA FINE DEL SENTIERO SULLA BOCCA DEL VULCANO
I SERVIZI IGIENICI. Una raccomandazione importante è quella di usufruire dei bagno prima di afforntare la salita. Oltre a viaggiare “più leggeri”, durante la salite e la discesa non ne trovere altri. E sul cono del Vesuvio non ci sono boschi o altro dove poter andare. I Serivizi igienici sono presenti nel piazzale antistante l’ingresso al Parco, dove dovrete esibire i biglietti precedentemento acquistati. E’ necessario spirito di adattamento. Si tratta di bagni chimici caldi d’este e freddi d’inverno.
LA NEVE. Come sopra ricordato il Vesuvio sfiore i 1.300 metri di altezza s.l.m., per cui in inverno fa freddo e può anche nevicare. Nel caso in cui decideste di salire con queste condizioni meteo, verificate sempre prima che il parco sia aperto, per evitere un viaggio a vuoto. Infatti per motivi di sicurezza, in caso di condizioni meteo avverse, l’accesso al pubblico può essere interedetto.
LA VEGETAZIONE. Il Vesuvio è coperto di vegetazione nella parte più bassa. Noterete subito la presenza di molte piante già percorrendo la strada che dalla parte più bassa riporta fino a parcheggio.
La vegetazione, tende poi a diradarsi mano a mano che si sale verso la parte più alta, dove si trova il cono per diventare quasi del tutto assente quando si arriva sulla somma dello stesso vulcano. È presente anche una bella pineta, parzialmente distrutta da alcuni devastanti incendi, che con preoccupante sistematicità si ripetono sulla cima del Vesuvio. In queste aree verdi non è possibile entrare, e ciò viene chiaramente indicato anche da alcuni cartelli di colore giallo che non potete non notare.
IL VIDEO DELL’ESCURSIONE. Di seguito è presente un video che raccoglie tutte le foto presenti sugli appunti di viaggio ed altre non inserite. Vi consentirà di rissumemere l’escursione senza tante parole. Ai prossimi appaunti di viaggio.
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ITALIA – REGIONE CAMPANIA: IL VESUVIO CARATTERISTICHE. Il vulcano ha un altezza di circa 1280 metri. Si tratta di un altezza variabile nel corso degli anni, proprio a causa dei mutamenti dovuti alle eruzioni che si susseguono nel tempo.
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Leopardi
"Mio Signor Padre. Sebbene dopo aver saputo quello ch'io avrò fatto (il tentativo di fuga - Ndr.), questo foglio le possa parere indegno di esser letto, a ogni modo spero nella sua benignità che non vorrà ricusare [rifiutare] di sentire le prime e ultime voci di un figlio che l'ha sempre amata e l'ama, e si duole infinitamente di doverle dispiacere. Ella conosce me, e conosce la condotta ch'io ho tenuta fino ad ora, e forse, quando voglia spogliarsi d'ogni considerazione locale, vedrà che in tutta l'Italia, e sto per dire in tutta l'Europa, non si troverà altro giovane, che nella mia condizione, in età anche molto minore, forse anche con doni intellettuali competentemente [notevolmente] inferiori ai miei, abbia usato la metà di quella prudenza, astinenza da ogni piacer giovanile, ubbidienza e sommissione [sottomissione] ai suoi genitori, ch'ho usata io. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non debbo ripetere. Ella non ignora che quanti hanno avuto notizia di me, ancor quelli che combinano [concordano] perfettamente colle sue massime, hanno giudicato ch'io dovessi riuscir qualche cosa non affatto ordinaria, se mi fossero dati quei mezzi che nella presente costituzione del mondo, e in tutti gli altri tempi, sono stati indispensabili per fare riuscire un giovane che desse anche mediocri speranze di sé. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia [ancora) in questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente. Certamente non l'è ignoto che non solo in qualunque città alquanto viva, ma in questa medesima, non è quasi giovane di 17 anni che dai suoi genitori non sia preso di mira, affine di collocarlo in quel modo che più gli conviene: e taccio poi della libertà ch'essi « tutti » hanno in quell'età nella mia condizione, libertà di cui non era appena un terzo quella che mi s'accordava ai 21 anno. Ma lasciando questo, benché io avessi dato saggi di me, s'io non m'inganno, abbastanza rari e precoci, nondimeno solamente molto dopo l'età consueta, cominciai a manifestare il mio desiderio ch'Ella provvedesse al mio destino, e al bene della mia vita futura nel modo che le indicava la voce di tutti. Io vedeva parecchie famiglie di questa medesima città, molto, anzi senza paragone meno agiate della nostra, e sapeva poi d'infinite altre straniere, che per qualche leggero barlume d'ingegno veduto in qualche giovane loro individuo, non esitavano a far gravissimi sacrifici affine di collocarlo in maniera atta a farlo profittare de' suoi talenti. Contuttoché si credesse da molti che il mio intelletto spargesse alquanto più che un barlume, Ella tuttavia mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per me, né le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia. Io vedeva i miei parenti scherzare cogl'impieghi che ottenevano dal sovrano, e sperando che avrebbero potuto impegnarsi con effetto anche per me, domandai che per lo meno mi si procacciasse qualche mezzo di vivere in maniera adattata alle mie circostanze, senza che perciò fossi a carico della mia famiglia. Fui accolto colle risa, ed Ella non credé che le sue relazioni, in somma le sue cure si dovessero neppur esse impiegare per uno stabilimento competente [per trovare una degna sistemazione] di questo suo figlio. Io sapeva bene che i progetti ch'Ella formava su di noi, e come per assicurare la felicità di una cosa ch'io non conosco, ma sento chiamar casa e famiglia, Ella esigeva da noi « due » il sacrifizio, non di roba né di cure, ma delle nostre inclinazioni, della gioventù, e di tutta la nostra vita. Il quale essendo io certo ch'Ella né da Carlo né da me avrebbe mai potuto ottenere, non mi restava nessuna considerazione a fare su questi progetti, e non potea prenderli per mia norma in verun modo. Ella conosceva ancora la miserabilissima vita ch'io menava per le orribili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi procurava la mia strana immaginazione, e non poteva ignorare quello ch'era più ch'evidente, cioè che a questo, ed alla mia salute che ne soffriva visibilissimamente, e ne sofferse sino da quando mi si formò questa misera complessione [divenni di così debole costituzione], non v'era assolutamente altro rimedio che distrazioni potenti, e tutto quello che in Recanati non si poteva mai ritrovare. Contuttociò Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere, o a consumarsi affatto in istudi micidiali, o a seppellirsi nella più terribile noia, e per conseguenza, malinconia, derivata dalla necessaria solitudine, e dalla vita affatto disoccupata, come massimamente negli ultimi mesi. Non tardai molto ad avvedermi che qualunque possibile e immaginabile ragione era inutilissima a rimuoverla dal suo proposito, e che la fermezza straordinaria del suo carattere, coperta da una costantissima dissimulazione, e apparenza di cedere, era tale da non lasciar la minima ombra di speranza. Tutto questo, e le riflessioni fatte sulla natura degli uomini, mi persuasero, ch'io benché sprovveduto di tutto, non dovea confidare se non in me stesso. Ed ora che la legge mi ha già fatto padrone di me, non ho voluto più tardare a incaricarmi della mia sorte. Io so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero. So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E perché la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci così. Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi, tanto più che la noia, madre per me di mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo. I padri sogliono giudicare dei loro figli più favorevolmente degli altri, ma Ella per lo contrario ne giudica più sfavorevolmente d'ogni altra persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande: forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli, e colle norme geometriche. Ma quanto a ciò molti sono d'altra opinione; quanto a noi, siccome il disperare di se stessi non può altro che nuocere, così non mi sono mai creduto fatto per vivere e morire come i miei antenati. Avendole reso quelle ragioni che ho saputo della mia risoluzione, resta ch'io le domandi perdono del disturbo che le vengo a recare con questa medesima e con quello ch'io porto meco. Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che toccare una spilla del suo. Ma essendo così debole come io sono, e non potendo sperar più nulla da Lei, per l'espressioni ch'Ella si è lasciato a bella posta più volte uscire disinvoltamente di bocca in questo proposito, mi son veduto obbligato, per non espormi alla certezza di morire di disagio in mezzo al sentiero il secondo giorno, di portarmi [comportarmi] nel modo che ho fatto. Me ne duole sovranamente, e questa è la sola cosa che mi turba nella mia deliberazione, pensando di far dispiacere a Lei, di cui conosco la somma bontà di cuore, e le premure datesi per farci viver soddisfatti nella nostra situazione. Alle quali io son grato sino all'estremo dell'anima, e mi pesa infinitamente di parere infetto di quel vizio che abborro quasi sopra tutti, cioè l'ingratitudine. La sola differenza di principii, che non era in verun modo appianabile, e che dovea necessariamente condurmi o a morir qui di disperazione, o a questo passo ch'io fo, è stata cagione della mia disavventura. È piaciuto al cielo per nostro gastigo che i soli giovani di questa città che avessero pensieri alquanto più che Recanatesi, toccassero a Lei per esercizio di pazienza, e che il solo padre che riguardasse questi figli come una disgrazia, toccasse a noi. Quello che mi consola è il pensare che questa è l'ultima molestia ch'io le reco, e che serve a liberarla dal continuo fastidio della mia presenza [qui il poeta allude palesemente al primo tentativo di fuga da Recanati j, e dai tanti altri disturbi che la mia persona le ha recati, e molto più le recherebbe per l'avvenire. Mio caro Signor Padre, se mi permette di chiamarla con questo nome, io m'inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice per natura e per circostanze. Vorrei che la mia infelicità fosse stata tutta mia, e nessuno avesse dovuto risentirsene, e così spero che sarà d'ora innanzi. Se la fortuna mi farà mai padrone di nulla, il mio primo pensiero sarà di rendere quello di cui ora la necessità mi costringe a servirmi. L'ultimo favore ch'io le domando, è che se mai le si desterà la ricordanza di questo figlio che l'ha sempre venerata ed amata, non la rigetti come odiosa, né la maledica; e se la sorte non ha voluto ch'Ella si possa lodare di lui, non ricusi di concedergli quella compassione che non si nega neanche ai malfattori". 1818
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